“Per Sethe il futuro era solo il problema di riuscire a tenere a bada il passato.”
Quando mi è stato chiesto se volessi scrivere qualcosa su Toni Morrison, magari su un libro in particolare, sono un po’ trasalita. Ho incontrato la scrittura di questa autrice leggendo, anzi ascoltando, Amatissima e non è stato un incontro: è stato uno scontro frontale.
Era il 2019 e, in una notte insonne (una delle), all’ottavo mese avanzato di gravidanza, con una grande pancia che ingombrava e mi tormentava schiena e respiro, ho deciso in piena notte – in più di una notte – di infilarmi le auricolari e di ascoltare, in audiolibro, un titolo che corteggiavo da tempo, ma che non avevo ancora aperto.
Se ci penso adesso, sorrido: non è proprio il libro che consiglierei a una donna in procinto di partorire. Eppure lo scelsi in quel momento: come libro notturno, per di più. Libro compagno di insonnia. Se lo avete letto sapete perché non fu esattamente una scelta consueta. Ma anche se non l’avete fatto vi basterà uno sguardo alla trama per capire che la mia fu una scelta peculiare in un momento come quello che vivevo. Sia chiaro, non è che ci siano libri “non adatti”, temi da evitare in maternità. Però non tutte le gestanti, magari, hanno voglia di entrare in contatto con storie oscure di maternità. Amatissima non è di certo una storia rassicurante, mette in scena un rapporto madre-figlia oscuro. Eppure io lo iniziai con slancio. Fu forse una scelta dettata dalla poca lucidità di quei giorni, dal poco sonno, o forse dal fatto, invece, che quello che si agita in noi trova sempre il modo di uscire. La maternità, nella fase di gestazione, seppur desideratissima, è stata per me un dialogo con molti fantasmi: paure, proiezioni, tormenti consci e inconsci. Che la vita chiamasse la morte così a gran voce, io l’ho capito per davvero, o forse diversamente, con la gravidanza. Quando si è spalancata la possibilità della vita, eccola lì, la morte, a farsi spazio come bianco su nero, il rovescio della medaglia sul quale non mi ero mai davvero soffermata, il dirimpettaio al quale non avevi mai fatto caso. Cucù, sono sempre stata qui, adesso ecco che mi vedi bene. La mia morte, la sua morte, la morte di una parte della mia vita, la preoccupazione che toglie il fiato per un altro essere umano come mai l’avevo provata. Pensieri lugubri per una donna in attesa? Forse il fatto di aver sperimentato tempo addietro un aborto spontaneo, ora che provavo la realizzazione di una gravidanza compiuta, contribuiva a evocare i miei fantasmi, ma non si trattava solo di questo. Quando qualcosa nasce, qualcos’altro muore. Parti di noi, spazi, tempi. Le trasformazioni non sono mai incruente, anche quando sono portatrici di qualcosa di bello, di magnifico. Non sono incruente le nascite, poi, no davvero. La mia vita fortunata non mi aveva mai messa davanti alla prospettiva di qualcosa di davvero cruento dal punto di vista fisico. Avevo paura. Sì, tanta. Sono certa che ci siano persone con un vissuto più a colori tenui della gravidanza, ma alcune tra voi, lo so, capiranno al volo ciò di cui parlo. Dar la vita per me è stata anche una grande paura e un lutto, un lutto vitale. L’elenco dei perché è ancora lungo, ma non mi dilungherò oltre a quest’ultima cosa: separarsi da qualcuno che è dentro di te per lasciar vivere qualcuno che non sai ancora chi sia, parrà strano, ma non mi pareva una cosa facile o felice, mi pareva un passaggio enigmatico, misterioso, oscuro. Staccarsi da quella creatura dentro di me. Ero pronta?
In quei giorni me ne stavo nella notte come una grande civetta cieca, sentendo tutte queste paure muoversi dentro di me, non chiare, non ammesse fino in fondo, cercando di scorgere, nel buio, con grandi occhi, cosa si agitava nella mia vita, cosa agitava in me questa vita che mi abitava, portentosa e forte. Era forte, fortissima, questa vita. E io? Lo ero abbastanza? Sentivo la mia paura e ascoltavo le parole tremende di Morrison, seguivo il tessersi della sua trama, il prendere vita del fantasma che aveva creato, leggevo di quella madre e di quelle figlie e mi turbavo e mi dicevo: ora la smetto, perché aggiungere questo turbamento al mio turbamento. Ma non la smettevo. Amatissima era troppo terribile e bello, il suo fantasma potente, la sua scrittura avvolgente, il suo buio così buio. Per tante ragioni che ora mi è più facile comprendere, mi sono, in quelle notti, abbeverata a quel buio. “È una scorciatoia”, scrive Elena Ferrante ne La frantumaglia, “mettere tra parentesi il tremendo delle donne, immaginarci solo come organismi di buoni sentimenti, abili maestre di gentilezza. Forse questo è utile per darsi forza, per crescere politicamente, ma chi fa letteratura l’ostilità, l’avversione, la furia deve renderle visibili insieme ai sentimenti generosi”. Ho sempre trovato interessante questo passaggio di Ferrante, sono sempre stata grata a quelle autrici capaci di scrivere l’oscurità e creare personaggi femminili tremendi. Ogni essere umano ha necessità di misurarsi con le cose oscure, anche le donne.
Anche la mia maternità, forse, aveva necessità di farlo.
C’è in Amatissima, ovviamente, qualcosa che va molto oltre la mia piccola e privata esperienza di futura madre insonne. Non si tratta solamente di una storia di materno oscuro, lì dentro c’è la Storia, c’è la forza di storie che dovevano (e ancora devono) essere raccontate, c’è la portata politica della sua narrativa, c’è il buio dell’umano e molto di più. Ma le storie ci riguardano anche quando apparentemente non ci riguardano. E mi è difficile parlare di quel libro senza raccontare di quel mio tempo.
Di giorno, in quel periodo, ho scritto delle poesie. Parlavano di ciò che vivevo, della maternità. Di notte ascoltavo parole scure, di giorno cercavo parole che definirei chiare. Ho sempre visto la parola come un segno netto, preciso, capace di separare e congiungere, dipanare. Molti poeti parlano dell’aspetto opposto, della manchevolezza della parola, del tentativo inevitabilmente fallimentare di dire, dell’indicibile, del potere del silenzio. Lo capisco, ma io mi sono sempre aggrappata, invece, a ciò che la parola può dire: dare forma, dare nome, illuminare. Nominare le cose ha per me un valore taumaturgico e conoscitivo: se si può dire, se si trova il modo di scriverla, quella cosa esce dal campo dell’innominabile, è affrontabile, condivisibile. I giri di frase si possono lavorare e rilavorare, fino a che il linguaggio trova una sua esattezza. Le parole si possono rileggere. Questa ricerca di esattezza è sempre stato per me un modo per avere a che fare con ciò che è difficile dire.
Le parole di Morrison in Amatissima sono molto potenti per tante ragioni ma anche perché sono capaci di dire l’indicibile e portare a galla.
Quando mi hanno proposto di scrivere “qualcosa su Toni Morrison”, ho raccontato questa storia, di aver letto Amatissima mentre ero incinta. “Puoi anche parlarne in relazione al tuo libro” (il libro nel quel sono confluite le poesie che ho scritto durante quel periodo), mi è stato detto, visto che parla di maternità. E io mi son detta, sì, ma che c’entra quella storia con il mio libro? Poco tempo prima, in una presentazione, mi avevano domandato quali libri fossero entrati nel mio, se avevo letto qualche testo in particolare mentre scrivevo. Nel rispondere, Amatissima non mi è venuto in mente. Rimosso, fatto fuori dalla coscienza, isolato dagli altri libri letti, restituito alla notte.
Ed eccolo ora che torna a galla, nella proposta di scrivere di Morris. Questo libro spunta fuori quando vuole lui, a quanto pare.
Le parole della poesia sono come iceberg. Io lavoro in maniera ossessiva sulla parte che emerge, ma so che una poesia funziona grazie a tutto quel che c’è sotto e del quale, alle volte, non sono così consapevole.
Amatissima l’ho scelto una notte, mentre aspettavo questo bimbo che ora conosco e amo e della cui nascita ho scritto, è stato per me un libro che stava nelle cose della notte, nelle cose anche buie che hanno accompagnato il farsi di una vita e un pezzo del mio farmi madre. Lì, evidentemente l’avevo riposto.
Sotto l’iceberg, mi sa.
Alessandra Racca
La comunità e il mito: il viaggio di Toni Morrison
Beloved – L’ombra del passato
Toni Morrison, my love
E tu cosa ne pensi?