Una Contea all’estremo nord del mondo conosciuto, sul limitare della Frontiera, una Confraternita, un Grande Masso Erratico dove si rifugia l’Uomo dei Boschi, persino un Gigante. Sembrano essere gli ingredienti di un fantasy perfetto e, benché 🔗Spettri diavoli cristi noi non possa certo rientrare nella categoria, alcune atmosfere e suggestioni riescono a trasportarci in un universo fantastico eppure fin troppo reale. Un interessante campione di quella letteratura che si muove sul confine tra realtà e magia, tra fatto e finzione, che tanto spesso si è vista espressa nel caldo che toglie il fiato e nella luce accecante delle campagne del Sud, e che qui si incarna invece nelle ombre fredde dei boschi, nelle valli scavate da lingue di ghiaccio e negli enormi massi che da millenni osservano il brulicare degli uomini.
La voce narrate del romanzo, attraversando il tempo e diverse fasi della vita, con il racconto di eventi diversi eppure legati da un sottile filo rosso, tratteggia il ritratto della Contea e del male che la abita. È proprio la Contea la protagonista di questo romanzo, più di quanto non lo siano l’Io narrante, Dambro, i suoi amici, o qualunque altro personaggio; con il suo freddo, i suoi boschi scuri che costeggiano, celandola, la Frontiera, il suo lago, il suo ventre di roccia che qui e là emerge in superficie in minacciosi spuntoni, la Contea è fin da subito il fulcro centrale, madre e matrigna come la Natura leopardiana, al punto da meritarsi una sua propria voce, in un Recitativo in cui è essa stessa a raccontarsi svelando il proprio spirito accudente.
È infatti attraverso una manciata di questi Recitativi, brevi passi che occasionalmente interrompono la linea narrativa primaria condotta interamente da Dambro in prima persona, dando parola ad altri personaggi e al loro punto di vista, che Spettri diavoli cristi noi assume i tratti di un romanzo corale, un romanzo sulla Contea e della Contea.
Con uno stile diretto e duro, crudo forse, ma che mai indugia nei piaceri del pulp e della ferocia, e una prosa capace di avviluppare il lettore e condurlo con sé, trascinandolo in capriole funamboliche di immagini e suggestioni che talvolta sfiorano il reame della poesia – interessante contrasto in un racconto che di lirico e soave non ha nulla –, tendendo fino alla spasmo lunghi periodi, pur ariosi, che oscillano perpetui tra l’onirico e il tangibile, tra il cunto e la realtà, Ielmini ci racconta del Male nella Contea.
È un Male assoluto e multiforme, che cresce e si trasforma con il crescere e il cambiare dei protagonisti, degli abitanti della Contea: è un Male che è la Bestia e Belzebù, ma anche i tossici, i satanisti, gli stranieri, la droga, i nazisti, il denaro, il successo, la vergogna, la superbia, lo stigma, ancora il denaro… l’uomo, infine.
È un romanzo che racconta di come il Male e il Bene raramente risiedano dove a prima vista parrebbe, di come il male visibile è spesso un male piccolo, un male di fragilità e di sbagli e di inciampi, e come il Male grande, invece, spesso riesca a celarsi dietro di esso, muovendosi sotterraneo, scavando i propri cunicoli in un granito millenario.
In questo romanzo ci sono tutti, ci sono i diavoli, quelli bestemmiati dalle nonne, l’Anticristo, Mammona, il Ciapìn, e quelli veri che si nascondono in piena luce e viaggiano su macchine di lusso; ci sono fuggevoli spettri, un Bardo sospeso tra l’Aldiquà e l’Aldilà, un soldato tedesco che forse ha ispirato un certo noto scrittore cileno, un padre che svanisce tanto lentamente quanto rapidamente se n’è andata una figlia; i cristi, che con il proprio sacrificio, o con la loro presenza rasserenante, allungano un velo di bene sulla Contea; e ci siamo noi, che forse ancora speriamo che il Male possa essere sconfitto da un gruppo di ragazzini in bmx.
Vera Alemanno
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