« Mi sono messo al timone come mi insegnò il marinaio cieco e come mi insegnò lui, ho solo assecondato la corrente » (La fortuna, V. Parrella)
« On ne peint jamais ce qu’on voit ou croit voir, on peint les milles vibrations du coup reçu » (N. De Staël)
La letteratura è anche un luogo di visioni; vedere con gli occhi dell’immaginazione, si dice, riuscire a vedere non solo la parte visibile degli oggetti, degli accadimenti e dell’animo umano ma soprattutto la parte invisibile, quella che distingue la materia dalla non materia, le cose dalle non cose. Quella che sta sottoterra in attesa di essere profanata, come ci racconta Alice Rohrwacher nel suo ultimo film La chimera. Quell’angolo di senso che trattiene il tempo. L’arte in tutte le sue espressioni dovrebbe possedere sicuramente questo: la nobiltà e il coraggio di uno “sguardo” sul mondo che vada oltre i quattro angoli della fotografia. Quello sguardo che rompe il parossismo delle immagini in cui galleggiamo. I libri assieme ai loro protagonisti sono anche superfici riflettenti in cui rispecchiarsi, vedersi, amarsi o compatirsi. Greta Olivo cerca di fare letteratura con quello che resta mentre sta perdendo la vista, mentre il romanzo avanza e come la malattia crea zone d’ombra, sgrana la realtà, come una goccia d’acqua o d’inchiostro caduta sulla carta, e poi ingoia il mondo. Con quello che resta dopo la vista, dopo gli altri sensi che non è vero che si potenziano al venirne meno uno. Quando non bisogna fare sforzi poetici per immaginare la parte invisibile della realtà, ma sforzarsi, strizzare gli occhi semplicemente per vedere quello che tutti gli altri vedono. Quello che per tutti gli altri è così facile e scontato e per te no. Perché questa volta tu sei il buio.
La protagonista di questo romanzo è una ragazza che perde la vista per una patologia chiamata retinite pigmentosa. Ma la vera protagonista di questa storia è semplicemente un’adolescente, in qualche modo l’autrice stessa che intervistata da Loredana Lipperini, parla della sua adolescenza, si aggrappa proprio a quella sua adolescenza in cui, afferma, soprattutto si osservava. “se qualcuno mi avesse visto da fuori”, scrive alla fine del romanzo. Non smetteva di osservarsi, di vedersi quindi, mentre gli altri facevano, vivevano. Osservare se stessi è come non vedere tutto il resto. Una specie di implosione. La cecità allora non è solo una malattia che Olivo prova a raccontare, bendandosi gli occhi, impugnando quel bastone bianco e mettendosi nella pelle di chi sta per perdere la vista, ma è anche, come ha osservato Teresa Ciabatti, metafora dell’adolescenza. Greta Olivo ci sta dicendo che l’adolescenza è anche quella paura di non essere visti, di sembrare ridicoli. Che l’adolescenza è sempre e comunque quel punto in cui misurare la differenza con l’altro, in cui impari sul tuo corpo cosa vuol dire essere diverso, essere l’altro da sé. In cui scegli da che parte stare. “Sotto le palpebre, in mezzo ai lampi riflessi dalle luci stroboscopiche, tra i fulmini di verde e rosso e blu impressi sulla retina e i puntini grigi che tempestavano il fondo dell’occhio, mi parve di scorgere me. Ero proprio io”.
Mentre leggevo Spilli leggevo anche un altro esordio di pochi anni fa, Pancia d’asino, opera prima di Andrea Abreu, pubblicato da Ponte alle Grazie. Le due storie raccontano la perdita, una perdita che avviene agli albori dell’adolescenza. Anche qui ci sono due ragazze Isora e l’io narrante. Un po’ come Livia e Morena all’inizio della storia di Spilli. Un io che si sdoppia, l’altro che è “l’amica geniale”, in un misto di attrazione omosessuale, iniziazione, narcisismo; l’altra che in fondo è solo un pezzetto di te. “Isora tenía los ojos verde como un verdino verde…isora tenía las tetas redondas—isora tenía pelo en el pepe…isora era mi mejor amiga yo quería ser como ella yo tenía los ojos marrones…” Tre pagine senza punti, né virgole, senza virtuosismi, senza soluzione di continuità, in cui Abreu passa come una trasfusione intravenosa dall’io ad Isora, da Isora a sé, dal sogno alla realtà, dalla realtà al romanzo; una sostanza da svuotare, da bere… “No sabía la diferencia entre yo e isora”
“Quell’estate Morena aveva già i peli sotto le ascelle”. E stanno lì rincantucciate in fondo al bus (proprio dove ci piaceva stare a tutti noi ragazzini che partivamo in gita), che le porta in vacanza, in una colonia del wwf, “a vedere” le tartarughe all’alba. Mano a mano che perde la vista, Livia si stacca da Morena, perché staccarsi da Morena significa staccarsi da sé, quel sé normale, che avrebbe continuato a vedere, a vivere invincibile, a correre come se niente potesse mai accadere. Quella specie di incantesimo (o malocchio) che è l’unione tra la narratrice e Isora nel romanzo di Abreu, in Spilli si spezza all’inizio. Perché in Livia si spezza qualcosa. Morena ricompare alla fine. È lei ad aiutare Livia (che finalmente è ritornata a scuola), ad uscire dal bagno in cui è rimasta chiusa. “Morena però fu più veloce. Mi prese la mano e se la infilò sotto il braccio. D’istinto infilai le dita e non dissi più nulla, iniziai a camminare con lei”.
In Spilli Olivo costringe la sua protagonista, e si costringe a non vedere, in un’operazione opposta a quella di Abreu. Tra Livia e Morena, tra Livia e Daniela, tra Livia e Lorenzo, tra Livia ed Ernesto c’è sempre una patina, un filtro. Livia fugge la schiettezza, mente, si rifugia nella sua stanza. Contenere, trattenere, fare economia di tutti i colpi, le vibrazioni perché da ora in avanti saranno i nuovi occhi di Livia. L’adolescenza delle protagoniste di Abreu invece è una esaltazione dei sensi, del tatto e dell’udito soprattutto. Tutto risuona, esplode, va in pezzi assiema al linguaggio. Il tatto, quello soffice delle orecchie dell’asino, dei peli irsuti di Isora, il sapore “quería beberme a isora”; meno la vista perché l’isola è avvolta dalle nuvole, una cappa spessa, in cui il sole non acceca ma filtra qui e là per una fessura bianca. Spilli di luce. Non la vista perché in realtà è come se gli accadimenti tragici di quell’estate in cui gli abitanti dell’isola, a differenza dei turisti, non vedono né il mare né il sole, ma risalendo le pendici del vulcano sono avvolti dalla “calima”, dalla “brumasera”, avvengano in una specie di buio. Buio dell’anima; quando tutto si sarà compiuto, quando il destino di Isora sarà andato dove le forze cieche della natura e dell’umanità desolata lo tiravano, solo allora, la narratrice trova il coraggio di uscire dal quartiere, dal barrio, di scendere, fino a giù, fino alla costa, dove finalmente potrà vedere, il mare e il sole.
Le ragazzine di Abreu vivono ai margini, in una delle isole Canarie sotto questa pancia di nuvole che è la “panza de burro”, vivono per strada, tra gruppi di case costruite alla bella e meglio dai padri e dai nonni, le madri fanno le pulizie nelle case rurali dei turisti che hanno invaso le isole e il mondo, gli adulti intorno, zie e nonne sono figure abominevoli che hanno sbagliato con i figli e continuano a sbagliare con i nipoti. le due ragazzine hanno traumi dentro, di quelli che è già troppo tardi per superarli, anche se loro sono solo delle bambine con i corpi di donna, traumi che nessuno rimarginerà.
Livia sta sperimentando cosa vuol dire passare dall’altro lato, ai margini, in una zona di disagio e allora cerca con tutta se stessa di trattenere la vista, il battito accelerato sulla pista di atletismo, le lenti a contatto, le feste, Lorenzo, la luce che si ritira…
Raccontare una storia di marginalità in un esordio deve portare con sé una rivoluzione stilistica, una necessaria “ibridazione”. Nel caso di Abreu la scelta è assolutamente radicale: la prosa mima il linguaggio parlato con quel suo mix sporco di dialetto, lessico familiare, storpiature, tutto in modo spontaneo. La decostruzione avviene senza costringere le parole in un nuovo corsetto. Le parole si deformano davvero ed è una musica dolce e infernale. Nel romanzo di Abreu esplodono incontrollate, si accavallano, rotolano per i pendii erti dell’isola. Perché la vita che ci sta raccontando si torce, ti precipita addosso e ti colpisce senza troppe attenzioni.
Nel caso di Olivo le parole si ritirano assieme alla luce, assieme alla vitalità di Livia, sono punti piccolissimi. Sono le pagine non scritte del diario che il dottore consiglia a Livia di tenere per annotare il decorso della malattia. Altro prende il sopravvento: immaginare le gambe di Emilio che si accavallano, la lavatrice nell’altra stanza, la palla che rimbalza nel cortile, il polline entra nella gola, strizzare gli occhi, come l’impronta di un gesto antico che non ha più senso.
Spilli è il pungolo che buca le pagine del romanzo, quella sensazione scomoda che ti lascia la lettura. I primi spilli sono le pupille della madre di Livia, che non vuole vedere la disabilità della figlia, non l’accetta, cerca di riparare l’irreparabile, piccolissimi, neri pungenti. Poi sono gli spilli del manto di Jocasta con cui Edipo impazzito dalla rivelazione del cieco Tiresia si acceca. Spillo è quello che resta del mondo. Ma anzitutto sono una specie di debito letterario, come confessa Olivo, verso quel racconto di Anna Maria Ortese raccolto ne Il mare non bagna Napoli, “Un paio di occhiali”. Le lettere dell’alfabeto sulle tabelle dell’“occhialaio” di via Roma, grandi e via, via piccole “come spilli”. Eugenia, la protagonista del racconto di Ortese, terzogenita di una famiglia troppo numerosa di una Napoli poverissima, tanto miope da essere quasi “ciecata”, desidera gli occhiali con la stessa intensità con cui Livia non vuole metterli, se li toglie nella gita del wwf, per indossare all’insaputa di tutti delle invisibili lenti a contatto, che le provocheranno una brutta infezione. La felicità di Eugenia di possedere finalmente quel costoso paio di occhiali è inversamente proporzionale a quella sua naturale malinconia come se fosse “inconsciamente preparata a una vita priva di gioia”. Invece il rifiuto di Livia per gli occhiali, il bastone, è la misura della sua vitalità.
Spilli è quella sottile crudeltà della vita che unisce la grande Ortese a queste due storie. Al velo di nuvole che copre l’isola di Abreu, che è come la nuvola di polvere e immondizia che scende dai piani alti sulla povera gente; alle sue ragazzine che sono già vecchie come Eugenia, che giocano tra pozzanghere putride come quelle del basso in cui sta Eugenia ed hanno bestie dentro, come le figure della Napoli di Ortese; ma soprattutto agli occhi grandi di Livia che comunque continuano a strizzarsi, a piangere, a meravigliarsi come quelli di Eugenia e come quelli di tutti i nostri adolescenti. Quel desiderio di azzurro che sta su, sospeso sulle nostre vite, “sui quartieri dei poveri” e sulle nostre difficoltà (la disabilità, la paura di crescere), che spetta comunque ad ognuno di noi.
Silvia Acierno
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