L’artefice maggiore del mistero di Kubrick è stato Kubrick: l’uomo trincerato dentro una villa dell’ amatissimo Settecento, l’uomo assente dalla compattezza delle sue opere.

La sua immagine si è perpetuata negli anni con l’ausilio di scarse e ultimamente rubate fotografie, come era accaduto in passato per altri personaggi morti anzitempo o reclusisi. Perché di Kubrick, oltre alla sua immensa opera, rimane anche l’immagine barbuta, preziosa per la sua «rarità», eloquente perché al valore puramente archivistico aggiunge un alone che eleva il regista al ruolo tutto massmediatico di mito.

Il suo allontanamento dalle luci dei media è andato accentuandosi sempre di più, ad ogni anno che passava, a ogni film che usciva, fino a che la morte non lo ha allontanato del tutto proprio quando aveva (non completamente) terminato l’ultimo film, Eyes wide shut, dopo dodici anni dal penultimo.

Rimane lo humour con cui egli prendeva le distanze dalla «materia» che raccontava. Perché, dopo aver rappresentato la violenza sociale che in questo secolo stava nascendo, la follia umana che si ripete ciclicamente in ogni epoca, l’erotismo che si fa feticcio, egli ha imperlato le sue opere di uno humour che è un ‘ulteriore chiave di lettura e forse l’unico scorcio possibile attraverso cui pensare l’uomo-Kubrick.

Ma dopo tutto questo, come se non bastasse, rimane la sua straordinaria capacità di raccontare, lo stile, l’abilità che aveva di usare la macchina da presa come una spatola e con la quale maneggiava la pasta informe dei fatti, modellandola fino a quando il capolavoro non sarebbe stato pronto a vivere, o meglio, sbalordire per conto proprio. Perché poi egli si eclissava, lasciando che le sue opere si presentassero al pubblico come prodigiosi eventi naturali, come misteriosi monoliti. E il pubblico non era mai snobbato, anzi. La sua «spatola» andava a modellare proprio materiali di fiction abbondantemente usati, collaudati, riconoscibili: i generi cinematografici. E così poteva capitare che un pubblico ignaro venisse attratto da una promettente locandina (da lui stesso ideata, come tutto ciò che girava attorno a un suo film) che, nel caso di Full Metal Jacket, annunciava una pagina «epica» della guerra nel Vietnam, salvo poi accorgersi, a posteriori, di quanto fosse mendace il testo pubblicitario. Far credere allo spettatore che sia epica una guerra già scritta, già fatta, già persa, era uno dei suoi ironici e sornioni metodi con cui firmava le proprie opere.

I suoi film sono scatole perfette, fatte di incastri millesimali, mondi possibili ad un primo sguardo «reali» e che invece sono soltanto le proiezioni mentali di chi vorrebbe che fosse quella, la realtà: geometrica, razionale, innocua, prevedibile. Ed ecco che invece tutto questo deflagra perché l’imprevisto è in agguato e quando salta fuori è un detonatore e lo scoppio è inevitabile, la distruzione è totale, la realtà anelata è irrealizzabile.

Quando è uscito Full Metal Jacket io avevo dodici anni, e ne sarebbe passato ancora qualcuno prima di sentir parlare di un «certo» Kubrick e poi vedere finalmente un suo film. Come tanti, anch’io sono rimasto per molto tempo ad uno stadio di visione pressoché superficiale e per questo inesatto. Mi piacerebbe un giorno sapere dell’esistenza di un «certo» Kubrick nei programmi scolastici, e non solo nelle liste nere dei film censurati.

Carmelo Vetrano