Il Sud Italia visto e raccontato – attraverso una  memorabile raccolta di poesie e testi di canzoni – da un grande uomo di cultura del Meridione.

Mio Sud: Poesie e canzoni di lotta, amore e libertà di Vincenzo Ursini (Edito da Accademia dei Bronzi, anno 2023, Pagine 107, con prefazione di Francesca Misasi, postfazione di Ilaria Celestini, commenti di Alessandro Randone e Mario D. Cosco ed illustrazioni di Grazia Calabrò) è un’opera letteraria di alta intensità lirica in cui il Meridione – come negli scritti di Carlo Levi – prima ancora che identificarsi in un luogo fisico, si connota per le tinte ed i contorni tipici di un’inguaribile passione, di un’imperitura nostalgia, di un frenetico andirivieni del cuore, di uno stato d’animo.

Oppressione e libertà, disperazione e speranza, senso di abbandono e desiderio di catarsi tratteggiano un percorso di “versi dolorosi, pregnanti, incisivi che, se pur declinati con magistrale finezza, pesano come macigni sulle coscienze di tutti” (Così Francesca Misasi nell’illuminata prefazione all’opera).

Non si fatica ad individuare in questa raccolta di umanissimi sentimenti, prima ancora che di testi lirici e di canzoni, un’appassionata e spassionata dichiarazione d’amore del poeta nativo di Petrizzi alla propria terra e alle proprie radici, che talora grondano di stenti e di sudore, ma che hanno il tratto inconfondibile della dignità, del senso di appartenenza che non conosce compromessi.

Vincenzo Ursini, che si conferma autore di grande spessore culturale, cuce in versi la trama tersa e purissima di una Calabria e di un’Italia meridionale assetata e desiderosa di un riscatto innanzitutto morale, che trae linfa, invero, dall’accurato lavoro d’introspezione del poeta e dall’acuta ed accorata disamina di un popolo profondamente ferito e piegato da tempi ed eventi, ciononostante indomito, resiliente e fiero.

È un’opera in cui gli affetti e le vicissitudini familiari e sociali si fondono al flusso inesorabile degli eventi storici, ma anche e soprattutto agli odori, ai colori, agli orizzonti e ai paesaggi di una terra immersa nella sua arida ma irrinunciabile bellezza, ovvero alla grazia naturale di un popolo che ha conosciuto spesso la sconfitta, che ha patito l’immobilismo e la rassegnazione, ma che ha vissuto e sa vivere la fede come valore irrinunciabile ed efficace contraltare alla resa, oltre che come anelito insopprimibile, sia individuale che collettivo, alla salvezza.

Ed è per questo che il pluripremiato lavoro di Vincenzo Ursini, come ogni felice opera letteraria, è cosparso di passaggi e sfumature liriche che non si fa fatica a definire indimenticabili: l’animo del lettore che si addentra nelle poesie e nei testi di “Mio Sud” resta impregnato nella fitta rete di semantemi carichi di pathos e musicalità, avvinto in un garbo espressivo di singolare delicatezza e, per paradosso, di altrettanto rara potenza.

“La terra/ è tutto uno schianto di verde, / e già febbraio/ regala uno specchio di luna / alla notte che ascolta paziente / lamenti di gatti in amore” (Mio Sud); “Ma sapessi che guerra sulle strade / sapessi quanti occhi di ragazzi / seduti sui gradini delle chiese / come lebbrosi o cani di ventura, / sapessi com’è buia la città / quando a sera si allungano le ombre / e noi  viviamo ergastoli infiniti.” (Il cuore e le pietre); “Io sono stanco, paese, di ascoltare / il pianto antico delle donne a lutto / che a pietre roventi di fiumara / regalano le ultime speranze” (Sono stanco di ascoltare); “A me basta il vento nelle mani / e la sera negli occhi /ubriachi di parole / come le acque dei rivoli, fra i pini” (Andate!).

I luoghi cari ad Ursini sono avvinti in un unico afflato coi tanti volti, intrisi di ricordo e nostalgia, delle persone amate, siano essi parenti, amici degli anni più verdi o semplici comparse, facce accese di sole o stipate nell’ombra, sguardi di uomini e donne che hanno tracciato rotte terrene e celesti nel viaggio esistenziale dell’autore. Fino a che, diremmo, questo strenuo e coraggioso, quasi doveroso, peregrinare in versi si riduce fatalmente ad unità, al fiato vivo di un grido o di una parola.

Una parola disossata come il ricordo, come può essere ogni ritorno, come una rivoluzione sognata, una speranza sfumata, un amore perduto eppure trattenuto in sogno.

L’amore di chi riconosce “la stagione / che trattiene le stelle sul mare” (Amore ergastolano), o di chi sa leggere negli occhi “quella casa bianca/ tra i lupini / quella strada oltre la siepe / dove l’acacia cresce per dispetto / e il vento ammulina / foglie scarlatte di rovi” (Tu nella terra).

Si coglie, in queste pagine preziose, il senso universale di un’eredità infinita, avvinta nello scambio dei respiri, nel dono instancabile e reciproco di uomini e di posti, di lampare e pescatori, di porti, di lamenti e di fanali, di stagioni attese, finite e interminabili, nell’ibrido mercato senza vento di cuori e bagnasciuga, di campanili al sole, di treni spenti e di angeli in anticipo o in ritardo.

Perché, a ben vedere, a vincere sul tempo è ancora la parola del poeta, eterna ed immortale, come quella di Vincenzo Ursini quando illumina le strade della notte e scrive: “Ho rubato con gli occhi / un pezzo di mare / per affogare la mia pena”.

Una folgorazione improvvisa. In tre soli, sublimi versi, il condensato della storia di un popolo e di una terra che non vuole e che non può morire.

E giunge un brivido inatteso: magari è l’ultimo vagito di Ungaretti, o forse è un’alba nuova, che ha i colori di Vincenzo Ursini e che si può ammirare in queste pagine, o in un affaccio di sole su Catanzaro.

Francesco Potenza