Allacciate le cinture: si parte! Non sarà un viaggio facile né idilliaco: Udine, la città in cui il protagonista fa ritorno, “è come un transatlantico che affonda, sono vetrine vuote spalancate sull’assenza, un romanzo giallo come un fegato abusato“. E se già in passato il quartiere di periferia in cui lui viveva non era chissà quale concentrato di meraviglia, da voler fuggire coprendo distanze spaventose, allora, perché tornarci? Torna, il protagonista, cinquantenne, dopo aver perso il lavoro, con l’illusione che sia più facile per lui e sua moglie ricominciare da zero fidando nelle fondamentali di un mondo che conosceva nel profondo. Ma la moglie lo lascia e lui finisce per perdersi tra i ricordi.

La caduta nel passato ha inizio quasi per gioco. In un susseguirsi di giornate oziose, tra lavoretti ed espedienti, incontri, bevute e chiacchiere superficiali con gli amici di un tempo, l’azzurro della proposta: “Ma tu ci passi mai al palazzo?”

Il palazzo, civico 398, è uno squallido caseggiato in periferia, destinato alle famiglie dei militari di stanza lungo la Cortina di Ferro ai tempi della Guerra Fredda, poi sgomberato all’improvviso dopo la caduta del Muro di Berlino. Ora è un parallelepipedo sinistro e vuoto, abitato tuttalpiù dai topi.

È quasi un gioco, una sfida: tornarci di notte, curiosare, scattarsi una foto, chiacchierare coni sospettosi abitanti del quartiere. Ma diventerà, per il protagonista, un gioco morboso: la paura e il ribrezzo iniziale saranno vinti da un’attrazione misteriosa.

Vi farà ritorno più volte, da solo, sempre più spesso, per esplorazioni più approfondite e per soggiorni sempre più prolungati. Fino a rinchiudersi tra scorte d’acqua e cibo in scatola, dormendo per terra. Mentre fuori il covid inizia ad imperversare tra notizie contraddittorie e confuse, lui farà di quel palazzo abbandonato la sua casa, perdendosi in sé stesso e nella spirale dei ricordi, perdendo la nozione del tempo e il contatto con la realtà.

Allacciate le cinture: non sarà un viaggio facile. Le parole sono lame: l’autore racconta il suo viaggio interiore con un linguaggio duro, crudo, spietato, intriso di inflessioni popolari, ma anche lirico talvolta. Una voce a cui bisogna abituarsi.

Allacciate le cinture. Non è un viaggio facile e io stessa sono stata tentata più volte di interromperlo, di uscire da quel mondo squallido, di scappare da quell’appartamento malinconico prima che il protagonista si decidesse a farlo.

Invece sono rimasta. Forse perché quel mondo ha inghiottito pure me e mi sono persa anch’io tra i ricordi e le allucinazioni del protagonista, tra i rumori sospetti e immaginari del palazzo. O forse, piuttosto, ho voluto andare fino in fondo nell’esposizione del suo mondo, nel suo percorso di rielaborazione dei vissuti e recupero delle proprie radici. Ho voluto resistere fino all’ultima pagina per scoprire se, quando, come, per quale spinta sarebbe finalmente uscito da lì per tornare fuori, nella vita reale, nella sua casa, quella vera.

Ho letto con la smania crescente di arrivare alla fine: quale messaggio ho guadagnato?
Come ammette il protagonista, “Allevare l’idea del ritorno può rivelarsi il più tragico degli errori. La putrescente speranza del ritorno può fregarti sul serio. Può inchiodare la vita diventando ragione d’essere, di resistere, di respirare ancora.” Riordinare i propri ricordi, recuperare le proprie radici è importante, anche quando sono aspre, anche quando son confuse o poco amate. Ma può essere anche pericoloso: a perdersi nel labirinto del passato, a quale presente e a quale futuro si rischia di rinunciare?

Silvia Oppezzo