“Intelligence is really a kind of taste: taste in ideas”
(S Sontag, On Camp)
Anna Maria Ortese racconta di curarsi con due gocce di pianto in due dita d’acqua versate nel bicchiere, ogni sera, perché il male può essere anche la cura, e il trauma possiede un potere taumaturgico. Questo primo romanzo di Chiara Tagliaferri è il trauma, – non tanto diverso da quello di una ragazzina qualunque di provincia i cui sogni e le cui ambizioni appena possono straripano, non riescono a stare buoni nei margini del luogo, delle paure della madre, e della vita che qualcun altro ha comandato per te- ma è anche la cura perché le parole che ritornano sul dolore e sui dispiaceri e lo raccontano, sono le uniche da diluire nell’acqua, da mandare giù, alzando la lingua; l’unica cura per chi ha capito che non è possibile guarire del tutto, che chi ti ha fatto soffrire deve morire due volte, le uniche parole capaci di spostare continuamente la linea tra realtà e irrealtà, tra oro e bijouterie, tra chi comanda e chi subisce: le streghe dalle fate.
Il padre accompagna la protagonista di Strega comanda colore, che è (e non è) Chiara Tagliaferri, in uno di quei luna park stagionali, che compaiono assieme alla fila di lampadine prima di rinchiudere la festa nei carrozzoni e scomparire, lasciando un piazzale polveroso dove ristagnano l’odore di noccioline tostate e di zucchero a velo, dei cartelloni un po’ stinti e una coroncina argentata caduta in terra assieme ai resti accartocciati che nessuno ha ancora spazzato via. Lì la protagonista sale su una ruota panoramica ed in qualche modo è come se Chiara Tagliaferri sia rimasta nella cabina della ruota, come se sia sempre lassù o ci ritorni spesso nei sogni, sospesa sulle lamiere, su fenomeni da barraccone e sulle streghe con le loro fatture, dondolando, scrivendo, dondolando, mentre il passato la stringe fortissimo non per darle forza ma per riceverne. E a lei sudano le mani perché avevamo bisogno che ci stringessero. Quel passato in cui lo sguardo resta incastrato comunque anche quando vuoi solo scappare e scappi come succede alla protagonista, quando finalmente la madre la lascia andare a Torino, perché stavolta l’ha combinata grossa. La ruota del luna park sullo sfondo della foto sul risvolto di copertina come una aureola che incornicia il volto della scrittrice: una santa dal corpo bianco e ossuto, una santa glamour e idolatra che al posto del giglio o del cuore, ha un fiore di stoffa appuntato alla giacca di seta ovviamente all’ultima moda: una martire che non cade mai perché si muove zigzagando come una moschettiera, una martire perché siamo tutti martiri del nostro passato. E dobbiamo tutti riscattare qualcosa. Ma soprattutto perché per riscattarlo la protagonista è disposta a tutto pur di non rinunciare al suo credo. I suoi idoli non sono letterari (Kate Moss, Kurt Cobain, Pietro Maso, Louise Brooks, …) e formano un’iconografia nera, “eccessiva e mancante”, di quelle che nutrono le nostre fantasie, diciamoci pure la verità, ma che non siamo disposti a confessare (soprattutto gli scrittori).
Quando il giornalista chiede ad Amy Winehouse di raccontare il successo di “Back to black”, la cantante si commuove e passa il dito sotto la curva di quel kajal che tirava su, per non far sbavare la lacrima; è un successo, che lei canta in quel modo indimenticabile in cui lo canta, perché è una storia privata, d’amore e di disperazione, di vita e di morte, un addio di milioni di volte, e un ritorno al buio quello che c’era prima di Black e da cui non è mai uscita. Anche la storia che racconta Tagliaferri è una storia privata, di una ragazza guasta, come gli esseri di cui Nicola, il futuro marito della protagonista, si dedica a curare, anche se non lo vediamo, non lo pensavamo possibile, sua fino alla fine, indipendentemente dalle finzioni, oltre la falsa riga che unisce tre punti che in realtà non sono allineati: verità, autobiografia ed io.
È una storia di vendetta, dove si sente tutta la rabbia della ragazzina che è appena stata, con le cianfrusaglie che brillano poco, la bulimia di oggetti che non sono mai abbastanza, la ruota di appuntamenti nelle macchine ed una volontà precisa: se tu mi fai soffrire, io farò soffrire te. Nessuna clemenza. Vendicare le umiliazioni che ha sofferto la madre a causa di sua madre e lenire le proprie umiliazioni che la madre in qualche modo ha passato assieme al sangue e al cuore a questa figlia che non vuole lasciare andare via, perché i lutti creano prigionieri. Ma è anche e soprattutto una storia di riscatto, la ragazzina che cercava vendetta è cresciuta, è una donna, che in qualche modo contiene dentro di sé tutte le donne di quella genealogia femminile pittoresca che la precede: la posa da diva della Cede (una sorella della nonna materna) sulle frange del vestito e il bocchino, con i suoi cappellini e le sue bizzarrie; l’anima da medium della zia Rina, zia da parte di madre, a cui il destino al momento della nascita ha lanciato con un solo colpo entrambi i dadi, quello della vita e quello della morte, essendo la madre morta dandola alla luce; la bellezza sbadata della madre amata ad ogni perdita; una libidine che sembra passare anche lei con il sangue; l’atmosfera dei piani nobili del palazzetto materno di via Cittadella, di cui la nonna Viviana, e la bisnonna, sono le malvagi custodi, artefici di ogni castrazione, eppure la cornice perfetta per questa Chiara, principessa androgina e nostalgica che si vuole strega; tutto immerso nella nebbia della val Padana, che potrebbe essere la stessa nebbia fantasmatica e aristocratica della campagna londinese di Sandringham, in cui la principessa Diana arriva alla vigilia della sua nuova vita nel film di Pablo Larrain. Tagliaferri se le porta tutte letteralmente cucite addosso, con la vanità estrema di chi non vuole privarsi di quello che le piace, non vuole sotterrarlo nella sabbia, per compensare tutto quello che è stato tolto a loro, per non sentirsi più in colpa: la principessa che si vuole strega ha detronizzato la nonna che era una regina malvagia. Ma Strega comanda colore è finalmente la storia di una donna che ha bisogno di dire al padre: mi manchi ancora e mi mancherai sempre; e alla madre: quando stavi lì, accovacciata sulla vasca, piangendo, scusa se sono uscita ma ero solo una ragazzina, e quello per me era troppo. Mamma tu sei l’unica regina. Tagliaferri assembla i pezzi, gli eventi luttuosi per riportare in vita i suoi morti anche se sa che la magia non sarà sufficiente a tenerli in vita e che quella sedia resterà vuota.
Gli scrittori (e gli artisti in generale) sono i custodi della metamorfosi e la scrittura in fondo è un grande io posticcio, un segreto che racconta un segreto in un lungo corridoio senza fine. Elena Ferrante è una delle ultime scrittrici ad essersi inventata un’altra identità; andando indietro ricordiamo la baronessa Blixen, che ritornata dall’Africa, si firma Isak Dinesen, una nuova identità, radicata sull’altra, in quella sua fuga (meravigliosamente descritta da Nadia Fusini) per scavalcare continuamente la perdita. Chiara Tagliaferri cambia identità assieme ai vestiti, agli stivaletti, ai suoi idoli e alle menzogne, rivelando una esuberanza dell’io e una necessità estrema di poetizzare la realtà e mitologizzare il proprio sé. “One should either be a work of art, or wear a work of art”, annotava Oscar Wilde. I vestiti sono segni come le parole, sono cioè interpretazioni della realtà. Anzi possiedono la capacità di sovvertirla, di giocare con la serietà di ogni paradigma. Ogni moda, scriveva Barthes, è un atto sovversivo, un superamento della moda precedente, e dell’ordine ricevuto, un punto di rottura. Il potere sovversivo della moda come sistema non esiste più, si è autodivorato: oramai la moda è l’impero della copia e dell’originale, una grande operazione di replica, accompagnata, sulle passerelle della haute-couture, da un certo struggimento per il passato. Ma non è così, forse, per ognuno di noi, che possiamo fare ancora di un accessorio, la fodera a quadri un po’ rovinata del trench, un segno, un rifugio, una promessa, un sogno: un gesto ironico o patetico per soffocare la tragedia e scongiurare la morte. Per la protagonista del romanzo, i vestiti e lo stile sono anche il suo nutrimento, e la voragine nascosta sotto. Con i vestiti si indossa l’amore, scrive. Eppure, ad ogni metamorfosi c’è una parte che si perde comunque, come un vestito che non metti più, o tutti quelli che dopo un po’ di tempo passato titubante a scegliere hai scartato, e la scrittura è una riflessione su questa perdita continua, le gocce sulla pagina di quello che non abbiamo voluto assorbire, il sudore in cui trasudano le nostre emozioni, e quello che abbiamo subito. Un altro fazzoletto di carta.
Silvia Acierno
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