Si è da poco conclusa, e con non poche polemiche, l’edizione 2024 del Premio Strega, con la vittoria del romanzo di Donatella Di Pietrantonio L’età fragile (Einaudi).
Tra gli 82 (!) testi proposti, la sestina finalista mostra una serie di elementi comuni attraverso i quali è forse possibile tentare di elaborare una riflessione sulla letteratura italiana contemporanea, o almeno su quella di largo consumo, in un Paese quale il nostro in cui tanto si pubblica e poco si legge (Ministro Sangiuliano docet).
Una prima riflessione riguarda i generi letterari più rappresentati. È il giallo il genere che più attira il pubblico italiano, basti pensare al proliferare di commissari, poliziotte e preti investigatori, più o meno credibili, che affollano gli scaffali e i canali TV. È innegabile che questo tipo di narrazione provochi nel lettore un forte senso di coinvolgimento, grazie all’engagement emotivo provocato dalla ricerca del colpevole, dalla precisione geografica, quasi cinematografica, delle ambientazioni, dalla lingua, salvo rare eccezioni, tutto sommato piana che rende il giallo fruibile a un vasto pubblico. Ecco che, se Chi dice e chi tace di Chiara Valerio (Sellerio Editore) si colloca chiaramente in questo solco letterario, pur ambendo a voler affrontare altri temi (l’ambiguità di genere, la questione femminile, l’annosa dinamica socio-culturale città-paese, anch’essa ormai ridotta a mero topos letterario), anche le storie non proprio classificabili come gialli si colorano di sfumature noir. Neanche L’età fragile sfugge alla suggestione giallistica, pur ponendosi l’obiettivo più ampio di sondare la fragilità del mondo giovanile e adulto, con un riferimento al tema attuale della violenza sulle donne e, ancora una volta, al topos della dialettica Nord-Sud, città-periferia.
Altro genere letterario da anni fortemente in voga è l’autobiografia, con annessi e connessi: autofiction, memoir et similia. Il lettore ha bisogno di riconoscersi nell’io narrante; lo scrittore allora gli strizza l’occhio e tenta di entrare in maggiore empatia con lui scegliendo una voce che risulti più familiare. È una moda, forse sancita dal modello Nobel Annie Ernaux, dalla quale non riusciamo più ad uscire: che si tratti di storie di formazione, del racconto storico, del dramma della malattia e della morte, non si riescono a immaginare più strategie narrative diverse. A parte l’uso, anch’esso ormai trito e ritrito, dello show don’t tell, con il suo onnipresente indicativo presente.
Si dirà che i lettori, già gravati nel quotidiano da fake di ogni tipo, reale e digitale, hanno sete di autenticità. O, forse, che la sindrome da selfie vizia tutti, autori e lettori, al punto che ognuno di fronte all’oggetto “libro” non riesce a non cedere al bisogno di riversare sé stesso. E lontana, tranne che in qualche caso, appare l’istanza con la quale il genere autobiografico, secoli prima della psicoanalisi, nacque, se pensiamo ai Pensieri di Marco Aurelio o alle Confessioni di Agostino: sondare gli abissi dell’essere uomo, indagare quel “guazzabuglio del cuore umano” per scoprirne in profondità i paradossi, le fragilità, ma anche la grandezza.
Soprattutto, questa tanto inseguita autenticità esiste davvero? Non corriamo forse il rischio di affondare in un iperrealismo sterile, che alla lunga non sappia più dire nulla, atrofizzando le capacità immaginative di autori e lettori?
Non solo rappresentare il mondo, ma anche indicarne altri; rompere gli schemi del detto e ridetto, ridisegnando i confini del reale, se necessario scontrandocisi; creare shock culturali; ribellarsi alle mode e agli schemi precostituiti, uscendo fuori dai superficiali richiami prêt-à-porter all’attualità: è questo che si richiede alla letteratura.
E altro compito, oserei dire civile, degli scrittori dovrebbe essere la custodia e la cura della lingua. Specialmente in un Paese come il nostro nel quale si registra ormai da più di vent’anni un progressivo impoverimento linguistico.
Ben venga la rappresentazione mimetica del parlato, specialmente nei dialoghi. Ma che fine hanno fatto il gusto per la ricerca, la sperimentazione, l’innovazione? Non è forse questo il fuoco alla base del poiein, dell’atto artistico?
Da lettrice sono grata a Dario Voltolini (cf. https://www.exlibris20.it/invernale-di-dario-voltolini/) e a Tommaso Giartosio (cf. https://www.exlibris20.it/autobiogrammatica-di-tommaso-giartosio/) per aver tentato quest’operazione, per non aver dimenticato che la forma è tanto importante quanto la sostanza e che l’espressione linguistica può essere fonte di piacere estetico non meno dell’accuratezza della trama.
Scardinare, reinventare la lingua; uscire, se possibile, dal provincialismo realista in cui ci siamo rilegati; scavare con le unghie nelle profondità degli etimi, delle glosse per sfondare quella barriera di 100 parole – sempre le stesse – che formano il vocabolario di un parlante comune; recuperare quella precisione linguistica che Italo Calvino indicava come uno degli amuleti per affrontare gli anni 2000: è questo che oggi, più che mai, si richiede agli scrittori e all’editoria italiana.
Maria Consiglia Alvino
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