
Numero 18 | Marzo 1999
Chi già venera Sylvia Plath poetessa e romanziera, prego, si accomodi pure e si sieda a divorare i suoi Diari. Chi non la conosce, o peggio, non la capisce, non la sopporta, odia di lei quell’altalena di estasi e disperazione che rappresenta la vertigine senza mappa dei suoi versi, bè, si avventi ugualmente sui Diari di cui sopra. Perché lì troverà un’altra Plath, dal volto quotidiano e spesso deformato, che dietro la maschera della dea impassibile e poetante passa repentinamente da vampe infuocate a pallore.
Inutile forse anche il tentativo dell’ex marito della versificatrice, Ted Hughes, poeta anch’egli e da poco defunto, di spiegarsi a distanza di anni l’orrifico destino della moglie, morta suicida a soli 31 anni, dopo sei anni di matrimonio perfetto come diceva lei.
Sylvia non fu mai se stessa nella vita, sostiene Ted, solo nei Diari e nelle poesie della raccolta Ariel (1966), scritte già sull’orlo della fine, osò smascherarsi. Pare più sensato ammettere che Sylvia fu molti volti di donna, oscillanti da un massimo di passionalità vitale a punte di salmastra morte-in-vita. Basta guardare le foto contenute nel libro, e più di un dubbio riguardo l’Unica e Assoluta identità della Plath sorgerà puntuale: dalla smorta collegiale perbene in tailleur e capelli vaporosi, impalata di fianco ad altrettanto funerei madre e fratello, a passare per la biondona abbronzata dal sorriso sguaiato in posa da spiaggia, per giungere infine alla bellissima, velatamente solare moglie del dolce Ted Hughes… Unico leitmotiv: sopracciglia terribili, quasi a triangolo, vera accetta dello sguardo. Ambizione rapace divenuta lineamento.
Sylvia non voleva soltanto scrivere, bensì eccellere in quanto Suprema Poetessa Americana e forse del Mondo; e per quest’impeto dissanguò la sua arte e la sua persona, il suo amore per la vita e il necessario stato di abbandono che costituisce – quello sì – la supremazia del poeta. L’essere quietamente nel flusso della vita. Forte di placido furore divino.
I Diari hanno un fascino indiscutibile proprio perché sono scritti nei sotterranei di un palazzo regale troppo imponente per il terreno che lo sostiene. Come rientrando nell’utero, e ogni volta rinascendo, Sylvia vi si rifugia, si slega dai lacci, prova a ricatturare il suo respiro pieno fuori dall’affanno, e quasi inconsapevole in molti punti assiste al dispiegarsi della sua voce in canto. Anche, e soprattutto, nelle descrizioni zigzaganti e ubriache: «Poi è successo il peggio: quell’atletico ragazzone bruno, l’unico enorme abbastanza per me… si è avvicinato e mi ha guardato fisso negli occhi ed era Ted Hughes. Ho ricominciato a strillare delle sue poesie e a citare carissimo diamante inscalfibile e lui ha strillato di rimando, colossale, con una voce che doveva arrivare dagli antipodi: “Piace?” e mi ha chiesto se volevo del brandy e io a strillare sì e a indietreggiare verso la stanza… e bang la porta si è chiusa e lui versava brandy in un bicchiere e io lo versavo nel posto dove si trovava la mia bocca l’ultima volta che ne avevo avuto notizie». Dopo mille amori vuoti e inebrianti come bevute tutte d’un fiato, scordando il nome del distillato (c’è il Ragazzo di Buona Famiglia, l’Amante Smodato, il Tipo che Allunga le Mani), la Plath trova Ted, e la sua brama ferina si converte in devozione assoluta e talvolta in idolatria. Intanto Ted è poeta, e poi è bello e delicato e intenso – l’uomo ideale di Sylvia materializzato, come in sogno, tra le sue braccia. Marito e moglie scrittori, ovvero un mondo chiuso e perfetto ma, proprio per questo, simile a friabile cristalleria.
Sylvia vorrebbe essere scrittrice ma intanto, profondamente paralizzata, si dibatte fino allo spasimo nei suoi grovigli e pantani interni, e fa la Moglie dello Scrittore, per giunta dotato di vocazione molto più robusta della sua. Arrivano le gelosie, la serenità è riconquistata, nascono i figli voluti e temuti in quanto limite alla creatività infinita cui Sylvia mirava da sempre senza riuscire mai a raggiungerla.
Donna baciata dal Fato, e in cambio richiamata dal suo rintocco scandito anzitempo, solo poco prima dal finale a Sylvia riuscì di riversare tutto il suo magma poetico nella raccolta Ariel che vedrà la luce solo dopo la sua morte. Per il resto, le toccò correre per la vita a perdifiato, consapevole d’avere qualcuno perennemente alle calcagna: «alle mie spalle c’è sempre il tic tac che mi deride: Una Vita Sta Passando. La Mia Vita».
Monica Pavani
«Oh, Signore, se quella che ho sentito a malapena, intravisto, subodorato con la birra e i panini al formaggio e gli esseri dalle menti elevate e dallo sguardo divino è vita, ti prego, fa’ che non diventi mai cieca e che non smetta mai di provare l’angoscia di imparare, la terribile fatica di tentare di capire.»
In libreria
Sylvia Plath
Diari
Adelphi, 2004
Collana: Gli Adelphi
Traduzione di S. Fefè
433 p., brossura
€ 14,00
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