Forse sta tutta lì la fissazione di alcuni di noi per i disastri incombenti, quell’inclinazione verso le tragedie che scambiamo per nobile, e che costituirà, credo, il centro di questa storia: nel bisogno di trovare a ogni passo troppo complicato della nostra vita qualcosa di ancora più complicato, di più urgente e minaccioso in cui diluire la sofferenza personale. E forse la nobiltà, in tutto questo, non c’entra davvero niente.

Tutte le volte che leggo un libro di Paolo Giordano mi viene in mente questa frase: “Ogni scrittore parla di sé. Se è bravo, ti illude che parli di te”.

È successo sempre, per tutti i suoi romanzi, ma in particolar modo con Divorare il cielo (Einaudi, 2018), quando Speziale, un paese del profondo sud Italia, è diventato il centro della mia vita di lettore, mentre seguivo i passi complicati dei ragazzi indimenticabili della masseria e le loro storie diventavano anche la mia.

Se con Divorare il cielo però, potrebbe trattarsi di semplice gusto o di uno stato d’animo personalissimo – la provincia, così come la famiglia e le storie di formazione, potrebbero essere tematiche care a un numero più o meno ristretto di lettori – con Tasmania (Einaudi, 2022) Paolo Giordano ha trovato il modo di forzare quel confine, di raccontare un centro molto più grande, collettivo, universale.

Allora eccolo, finalmente, il romanzo contemporaneo di cui tutti parlano da anni. Che molti, senza mai riuscirci, hanno provato a scrivere, afferrando pezzetti di contemporaneo che seppur tangibili, hanno restituito al lettore una visione parziale, mai davvero focalizzata.

Gli ho chiesto in che senso occuparsi di buchi neri non gli facesse bene e lui, nel rispondere, ha evitato attentamente di incrociare il mio sguardo: Secondo lei, prof, è possibile che una materia di studio prenda il sopravvento su di te?

Con Tasmania l’autore riesce a scattare una fotografia fedele e preziosa del nostro tempo, e lo fa puntando l’obiettivo su un protagonista, P.G. (vi domanderete: è lui? È la sua storia? Ma fidatevi, non è affatto rilevante) che, in quanto vero figlio della sua epoca, si ritrova a fare i conti con una crisi individuale che non potrà mai, in nessun modo, staccarsi – o non riconoscersi – da quella collettiva.

Così i suoi drammi, come quelli degli altri personaggi, si intrecciano alla perfezione con quell’idea di apocalisse che accompagna tutti i nostri giorni: la crisi climatica, il terrorismo, la minaccia nucleare, la costante distanza tra una generazione che ha già consumato questo pianeta e quella nuova, nuovissima, che percepisce il tempo e lo spazio in una maniera diversa, che ha ancora il coraggio – e la speranza – di sognare il futuro.

Vivere e scrivere. Oppure dirsi che vivendo non si doveva lasciare nulla di intentato. […] Per poter scrivere non bisogna prima di tutto, forsennatamente, vivere?

È questa la grandezza di Paolo Giordano: la capacità reale, concreta, di cogliere e mettere su carta tutte le debolezze che assediano l’animo umano, di vedere e trasformare un centro piccolo, individuale, in qualcosa di molto più grande, dove ritrovarsi, riconoscersi, sentirsi insieme.

Mi piace immaginare, allora, che il cielo del suo precedente romanzo e le nuvole osservate e raccontate in Tasmania, facciano da tetto alle nostre esistenze.

Poiché, nonostante i continui e differenti movimenti, stiamo tutti guardando nella stessa direzione.

Emanuele Bosso