Ho conosciuto la poesia di Ted Hughes un pomeriggio di molti anni fa. Da qualche mese mi ero trasferito a Verona e vivere era come camminare su una fune: sentivo l’incertezza di non sapere se quella sarebbe diventata la mia città definitiva e nello stesso tempo ero pieno di speranze per quello che avrebbe potuto offrirmi. Tra un turno di lavoro e l’altro uscivo e andavo in giro, spaesato.
Volevo conoscere meglio la città, stare all’aria aperta, andare incontro al brulichio della gente che riempiva le strade, attraente all’inizio, frustrante quando capivo che da tutte quelle persone restava una distanza enorme. Allora entravo in una delle tante librerie (“una delle tante” vale per quel pomeriggio di molti anni fa, purtroppo non per oggi). Mi aggiravo tra gli scaffali, sbirciavo, toccavo, sfogliavo. Presi un volume di poesia intitolato Fiori e insetti di Ted Hughes era più quello che non sapevo di quello che sapevo; per esempio non sapevo nemmeno che fosse stato sposato con Sylvia Plath. Il volume era stretto, compatto e pieno di promesse come lo sono spesso i libri di poesia. Aprii a caso e lessi: «La marea montante trita cristallo sotto la scogliera». Quella marea mi investì in pieno e mi fece vacillare; sentivo, come se ci fossi caduto dentro, il tritare del cristallo che si gonfiava fino a diventare la schiuma del mare che era, e gli odori e perfino l’umidità. Stordito, girai ancora qualche pagina e intravidi narcisi che si scuotevano al vento, petali che erano lingue di fiamma, insetti che copulavano, una natura avviluppata nell’estasi. Forse, mentre decidevo che mi sarei portato a casa quel volume, mi appoggiai allo scaffale per non perdere l’equilibrio.
«Avevo comprato un pezzo di terra incolta.
In marzo mi sorprese. All’improvviso vidi quel che avevo.
Un calderone di giunchiglie in soave bollore.»
Una terra incolta erano i pomeriggi in cui uscivo senza meta, e un marzo sorprendente quelle poesie. Una terra incolta era stata anche quella, reale, dove mi portava mio padre, nel periodo compreso tra la fine della vendemmia e l’inizio della primavera. Ero stato moltissime volte dentro il mondo brulicante, selvaggio e conturbante dei fiori e degli insetti, ma ne sentivo la forza cieca solo adesso che leggevo Ted Hughes.
«La mia vita era ancora una razzia. La terra era il bottino.
Credevo che sarei vissuto per sempre.»
Leggevo e mi accorgevo che in poco tempo la monotonia del lavoro al magazzino di smistamento aveva indebolito gran parte della mia vitalità. Mattina/notte/sera/pomeriggio: non una quartina ma la successione dei turni in base alla quale salivo su un autobus per andare a consumare energie preziose in una sequenza di turni e gesti che asfissiavano con la loro regolarità.
Attraverso un’antropomorfizzazione del mondo vegetale, in quei versi violenti, pieni di energia, ritrovavo il desiderio e l’istinto, e condannavo l’artificialità relazionale e emotiva in cui ero piombato. Movimento contro staticità. Impulsività contro autocontrollo. Natura contro cultura.
«Dietro le tende piovose di quel buio Aprile
entrai in intimità
con i tenui gridi
dei loro germogli stipati –
le umide corolle scosse
delle loro fanciullesche vesti da ballo –
Libellule aperte di fresco, umide e fragili.»
L’anima si infiamma leggendo di una natura che non smette mai di avere uno scopo, che brama, soffia, spumeggia, desidera e si avvinghia coinvolgendo tutti i sensi. Suoni, odori, amplessi, ragni che eseguono danze «lente e malvagie» per attirare e intrappolare i partner tra le proprie zampe, effimere che «si scuotono, e ancora si scuotono».
Come spesso mi era accaduto, e mi accade ancora, la vita mi spingeva a rifugiarmi nella letteratura, e la letteratura mi faceva a sua volta sentire di nuovo vicino alle cose e alla vita, in una triangolazione sempre fertile che si nutre di movimento e desiderio.
Carmelo Vetrano
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