La scuola di scrittura creativa più celebre d’Italia, un’aula con le sedute in legno che rimanda ai celebri college a stelle e strisce, uno dei romanzieri coevi più apprezzati che sveste i panni dell’intellettuale in solitaria per indossare quelli di attore.

E nelle vesti di attore, onestamente, Tiziano Scarpa pare essere molto a suo agio.

Tiziano Scarpa Aula 3 Scuola HoldenLa Torino che legge, manifestazione che dal 16 al 23 aprile offre un calendario ricco di appuntamenti dedicati alla lettura, si declina, tra l’altro, nella “Torino che ascolta” in un’edificante incontro alla Scuola Holden, con Scarpa, giunto in Piemonte anche per presentare il suo ultimo romanzo, Il cipiglio del gufo, edito da Einaudi.

Scritta in occasione della rassegna, patrocinata dalla città di Torino, MIUR, Forum del Libro e centro Unesco, quella di Scarpa si presenta come una sceneggiatura fresca, coinvolgente, destinata sicuramente a replicarsi in altri momenti. In altri luoghi. Dovessimo immaginare una specie di log outline la leggeremmo così: soggetto – la lettura scenica, protagonista – Tiziano Scarpa in veste di autore, co-protagonista – le parole.  Un gradevole interno giorno con una finestra aperta da cui entra l’aria mite della primavera, una scena unica che non annoia nemmeno per tre minuti. E, monologando, il rischio di incappare nella noia era più che reale. Inevitabile forse. Ma Scarpa la sa lunga e mette in scena, perché di teatro puro si tratta, una lectio magistralis nella quale il verbo diviene suono modulato all’occorrenza e permane in forma scritta sul leggio 2.0 per eccellenza dello schermo, riproposto sapientemente all’uditorio affinché segua la voce dell’autore-attore. La possibilità di dare vita a una performance troppo didascalica, ad una testimonianza eccessivamente didattica viene dribblata da Scarpa inscenando una pièce che segue una sceneggiatura originale, nella quale nulla è lasciato al caso, nemmeno quelli che potrebbero apparire interventi intimi, ricordi sbocciati all’istante, riflessioni improvvisate.

Mentre cerca di enunciare le leggi universali della lettura scenica, iniziando proprio dall’accordo tra il testo scritto e l’autore che lo interpreta davanti al suo pubblico, ecco che con forza dirompente fanno incursione le parole, e la tranquillizzante stradina alfabetica avvedutamente tracciata dall’autore diviene un percorso ad ostacoli durante il quale Scarpa deve barcamenarsi per uscirne indenne. Le parole possono tirare brutti scherzi, si sa. Soprattutto quando decidono di uscire fuori senza essere state segnate, in un (salva)condotto espressivo che invece dovrebbe essere completamente tracciato, concepito per filo e per segno.

E così Scarpa inizia a dialogare con esse, attribuendo loro una voce diversa dalla sua, un modo di auto-proporsi che è proprio della loro natura. Un carattere perfino. Inizia a battibeccare con loro, “Mi state rubando la scena!” le rimprovera, “Sei tu che non sai tenerla” replicano indefesse. Ma quando si stabiliscono le parti, si ritagliano i ruoli ed emergono i “personaggi” di questo monologo dialogato, Scarpa sorprende ancora, e lo fa cambiando voce, impostazione, tono. Esce dal testo scritto e si rivolge direttamente al pubblico, in quella che si istalla subito nell’atmosfera come una rassegna di ricordi, di esperienze vissute, di strade percorse per mostrare come sia arrivato a concepirlo questo testo. Senza dircelo chiaramente, d’altronde siamo nell’istituzione che della lezione anglosassone dello show, don’t tell fa il suo primo assioma.

E allora sappiamo che la lettura scenica, così abilmente proposta, non è sempre piaciuta allo scrittore veneziano, lui che agli esordi temeva di risultare troppo scolastico nelle sue presentazioni, lui che ha piano piano iniziato a esibirsi in vere e proprie serate performative, lui che ha letto pezzi dei suoi grandi successi con musicisti del calibro di Enrico Rava, Stefano Bollani, Marlene Kuntz. E proprio la lettura in pubblico, quella forma di arte che parrebbe essere sostenibile solo per pochi minuti e in circoscritti contesti, arriva ad essere e a rappresentare per lui un setting di ispirazione, innescando addirittura il processo creativo stesso. Nasce così, ci dice, Groppi d’amore nella scuraglia, la sua prima lettura scenica che si trasforma in romanzo. “Quando sono andato in Einaudi, ho chiesto un’ora del tempo agli addetti ai lavori… una volta seduti nello storico ufficio al tavolo ovale ho iniziato a leggere questo scritto. Per un’ora e un quarto. Una volta terminato, i redattori hanno deciso di farlo leggere a due lettori esterni, uno del nord e uno del sud Italia. A loro è piaciuto, e così si è deciso di pubblicarlo. Perché avrebbe funzionato anche come testo scritto.” Così, la storia ambientata in una discarica, a mezzo di una lingua che mescola il dialetto abruzzese a quello partenopeo, vede la luce sulla carta stampata.

Scarpa continua a ricordare a voce alta. Quando il dialogo sembra così archiviato, ecco che le parole rubano di nuovo la scena all’autore, lamentando di essere in realtà morte: “leggendoci ci vivifichi!”. E una di loro, la parola sgorgare, pare voglia ritagliarsi uno spazio personale che la differenzi dal registro linguistico di appartenenza, lei che è abituata a frequentare i “quartieri alti” di un testo scritto, con amiche del calibro di meramente, tenebre, benché. Le parole chiedono spazio, palesano malinconia rispetto al potere che ha l’autore di pronunciarle o meno. Ed è per tirarle su che Scarpa legge loro un brano tratto dalla raccolta di racconti, Sotto il sole giaguaro, di Calvino, nel quale un piatto di gorditas pellizcadas con manteca (letteralmente paffutelle pizzicate al burro) nella loro musicalità gustativa hanno il potere di lasciare un sapore inconfondibile sulla bocca di chi le pronuncia. Pur senza assaggiarle davvero.

Non contente dell’elevazione a potenza di sapore oltre che di sapere, Scarpa decide di dedicare loro qualcosa di sublime, qualcosa dal quale lo scrittore dice di non separarsi mai: il prologo di Enrico V di Shakespeare. La parola del Maestro, al quale alla fine riserva un doveroso inchino, segue la parabola di quello che lo stesso Scarpa aveva posto come incipit del suo discorso: la parola che liberata dalla carta si oggettiva vivendo di natura propria e che poi, grazie alla lettura ad alta voce, rientra nell’autore stesso. In una catarsi caleidoscopica eternamente diversa, ogni volta che la si propone in pubblico. Viene da chiedersi se Shakespeare ci avesse mai pensato. Come Pinter, autore teatrale più rappresentato al mondo proprio dopo il Maestro, che soleva leggere a voce alta le battute dei suoi personaggi per capire se aveva dato loro la voce da lui immaginata. Attraverso quelle parole prima scritte, per l’appunto.

Alla fine, sarà proprio la parola sgorgare a chiedere la sua autodeterminazione, la sua identità secondo lei talvolta taciuta, negata perfino. E alla richiesta spazientita di uno Scarpa ancora seccato per l’interruzione: “Insomma, ma cosa vuoi? Si può sapere?”, lei per sua stessa voce replica: “Sgorgare, sgorgare, sgorgare.”

Angela Vecchione