Toni Morrison mi è cara per motivi in cui è difficile scindere l’aspetto personale da quello letterario. Ma forse questo è quello che succede sempre quando si eleggono degli autori a scrittori preferiti. Lei non ha bisogno di tante presentazioni: scomparsa nel 2019 a 88 anni, è una firma possente della letteratura statunitense. È stata la prima scrittrice afroamericana a vincere il Nobel per la letteratura, nel 1993, e ancora prima il Pulitzer nel 1988 con il suo titolo più conosciuto, Amatissima, che è proprio il primo dei suoi libri che ho letto. È stata fascinazione immediata, la stella polare che mi ha guidato nella lettura dei suoi titoli precedenti – L’occhio più azzurro (The Bluest Eye, 1970), Sula (Sula, 1973), Canto di Salomone (Song of Solomon, 1977), L’isola delle illusioni, (Tar Baby, 1981) – e anche qualcuno di quelli successivi, ovvero Paradiso (Paradise, 1997) e Amore (Love, 2003). Quando li lessi allora non mi ero interrogata sulle motivazioni di questa fascinazione, l’ho fatto invece quando ho scelto Toni Morrison come protagonista di Dedica. Ed è stato un po’ come riscoprire delle gemme preziose.

Sono nata in Zambia, a Kitwe, 12 anni dopo l’avvenuta indipendenza del Paese. In Africa la mia famiglia ha vissuto a più riprese, la volta in cui c’ero anche io è durata circa cinque anni. Per quanto i miei ricordi siano ormai sbiaditissimi, quel periodo rimane nella narrazione familiare come uno dei più felici. Sarà per questo che la mia connessione con l’Africa si è mantenuta viva in differita, anche attraverso la lettura. Il primo approccio è stato con Ragazzo Negro, di Richard Wright, romanzo di formazione al maschile uscito in Italia nel 1947 in cui tanto si impara sulla condizione degli afroamericani nei primi decenni del Novecento negli Usa, il peso del razzismo, la fatica del riscatto sociale. Citando Cesare Pavese, è “uno di quei libri che temprano le coscienze”. Nel 1993 ho esplorato l’Africa che traspare nello sfondo di Amatissima: ispirata a un fatto di cronaca vera, è la storia di Sethe che, negli anni precedenti alla Guerra Civile americana, si ribella al proprio destino di schiavitù e fugge al Nord. Qui l’iniquità di cui ho letto in Ragazzo Negro si tinge di un colore in più, oltre al razzismo c’è quello della schiavitù, in un mix indistinguibile. Un estratto dall’intervista pubblicata da Minima e Moralia nel 2009 lo sottolinea:

Una ragione per cui mi aveva colpito quella parola, “nostra” nel cartello della libreria a Harlem è che più leggo Beloved e più ho la sensazione che lei usi la schiavitù anche come metafora di altri rapporti – la schiavitù è un rapporto in cui si posseggono delle persone, ma anche nella famiglia, o nella comunità, c’è possesso…
Essere proprietari dei propri figli – che è quello che pensa Sethe: “loro, gli schiavisti, hanno la proprietà dei miei figli? no, ce l’ho io.” La vera questione che c’è sotto la sua esperienza, quello che lei veramente impara, è che liberarsi è una cosa, ma diventare padroni di se stessi è un’altra.

Morrison parte dalle questioni che hanno afflitto i suoi antenati per riflettere su dinamiche umane che reiterano, mettendone a nudo le storture. Sempre nella stessa intervista dichiarava: “è importante per me sapere che la mia famiglia, mia nonna, il mio bisnonno, i miei antenati, non gradirebbero affatto che io diventassi una persona privata, disimpegnata, irresponsabile, solo perché sono una scrittrice di successo”.

Proprio per questa sua scelta di impegno, nella lente di ingrandimento di Toni Morrison non manca la condizione femminile. Le sue donne sono forza vitale, nel bene e nel male, e svelandoci i loro abissi emozionali l’autrice racconta un mondo esterno fatto di disparità, differenze, violenze. Una denuncia di cui c’è ancora bisogno ai tempi nostri. In verità le donne di Morrison offrono anche lo sguardo sull’uomo, come sottolinea Sergio Mancuso nel suo articolo su Minima e Moralia uscito nel 2023:

in questo la narrazione di Toni Morrison è una narrazione al femminile che cerca di darci contezza della condizione della vita di una donna in epoca, eppure non è una narrazione tutta al femminile, gli uomini sono presenti e contribuiscono a creare un sistema di rappresentazione del reale completo.

Il mio incontro con Toni Morrison è avvenuto quando ero poco più che ventenne, dopo la sua premiazione con il Nobel, nel 1993. Gli anni Novanta sono stati anni interessanti per la narrativa italiana, si sentiva aria di nuovo. Branchie di Niccolò Ammaniti, La Compagnia dei Celestini di Stefano Benni, Oceano Mare di Alessandro Baricco mi avevano introdotto a un uso diverso e inedito del linguaggio, lo stesso che ritrovavo nei titoli del ciclo di Malaussène di Daniel Pennac, che proprio in quegli anni esordiva. Eppure, lo stile di Toni Morrison non era paragonabile. Potente, diretto, crudele, immaginifico, sfida il lettore e lo costringe a trovare la propria interpretazione dei fatti, ad ammettere di essere lì, dentro quelle parole.

Nel suo discorso all’Accademia di Svezia, Morrison spiegò da dove arriva la sua passione per il lavoro sulla parola: “Intessere parole è sublime, perché è generativo, ha un significato che fissa la nostra differenza, la nostra differenza umana: il modo in cui siamo dissimili da ogni altra forma di vita. Noi moriamo. Questo potrebbe essere il significato della vita. Ma mettiamo al mondo il linguaggio. E questa potrebbe essere la misura delle nostre vite”. Difendere la lingua e il linguaggio perché sono strumenti identitari, fatti “per cogliere il significato, per fornire una guida o per esprimere amore”.

Anche solo in virtù di questa magnificenza linguistica, leggere Toni Morrison diventa un’esperienza sensoriale, dove ogni parola è selezionata, cesellata. Il ritmo è serrato, fatto di suoni e silenzi. Anzi, come dichiarò nell’intervista rilasciata a The Paris Review nel 1993, “è ciò che non scrivi che spesso dà a ciò che scrivi il suo potere”. Che assomiglia molto alla famosa citazione di Debussy in cui sostiene che musica sia il silenzio fra le note (e non a caso in Toni Morrison la musica, il blues, il jazz, sono ispirazione narrativa e modello stilistico).

Amatissima è il suo titolo più conosciuto, appassionato e rappresentativo. Ma anche i suoi titoli ahimè più trascurati hanno già fra le pagine molti degli elementi che la caratterizzano, a partire dal romanzo d’esordio, L’occhio più azzurro, così come Sula. La sua Africa, la presenza dei suoi antenati, la sua blackness non sono paletti autoreferenziali, al contrario sono porte che fanno entrare il lettore nel desiderio nudo dell’autrice di inclusione, equità, pacificazione dei conflitti sociali, umani.

Daniela Giambrone

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