Candidato al premio Strega, Tutto tra noi è infinito è il romanzo d’esordio di Nicola Campiotti.

Si tratta di un romanzo di formazione, attraverso le cui pagine ho compiuto un viaggio che – seppur breve – mi ha permesso di ripercorrere molte fasi della mia vita.   

La prosa del romanzo è scorrevole, seppur ricca di lemmi stranieri, riferimenti mitologici, storici e filosofici: nulla ha teso una trappola al desiderio irrefrenabile di scoprire i passi che avrebbe compiuto Teo nel suo essere prima un bambino, poi un adolescente e, infine, un adulto.

Scoprire e scandagliare ogni suo sospiro, ogni suo pensiero, ogni suo interrogativo.

Il libro si divide in tre parti e il protagonista è Teo, anche se la storia comincia ancor prima che lui diventasse vita. Si parte dal principio, da quando due persone si sono unite al fine di generare – consapevoli o no – una nuova esistenza, pacifica, turbolenta, confusa ma, allo stesso tempo, magnificamente intensa.

Perché in fondo la storia di ognuno di noi comincia ancor prima del pianto, ancor prima dell’imprinting con la propria madre: qualcosa di noi è già presente nell’universo e questo condizionerà ogni piccola particella del nostro essere.

Così è stato per Teo.

La separazione consensuale dei suoi genitori – prima ancora della sua nascita – sarà il suo punto di partenza e di ritorno, i due margini entro i quali si svilupperanno i suoi pensieri, i suoi ideali, i suoi dubbi, le sue sicurezze e insicurezze.

La separazione non è sofferenza per Teo, piuttosto è per lui dualità: due venti contrari che risalgono verso di lui, per educarlo, sostenerlo, supportalo e accompagnarlo – ognuno a proprio modo – nel passaggio da una fase all’altra del suo percorso di vita.

Tuttavia, il Teo bambino osserva per conoscere meglio il mondo degli adulti che lo circonda, così da rischiarare quel buio che ancora contraddistingue il suo di mondo, ancora tutto da costruire.

«Trovare le somiglianze nelle vite slegate dei miei genitori era un bisogno nascosto. Cacciavo tracce di consonanze nelle loro esistenze, inseguivo qualsiasi segnale che potesse dirmi che le loro nature erano ancora unite da qualcosa che prescindeva da me, e quando scovavo dei denominatori comuni nelle loro giornate divise si liberava in me un’inspiegabile felicità».

Osservare. Parola che si fa azione, azione che si tramuta in un leitmotiv.

Teo – nel suo esercizio di conoscenza – osserva e scrive. Registra fatti, sensazioni, presagi che cominceranno, presto, a cambiare la sua pelle.

Maturerà certe consapevolezze sull’amore come, per esempio:

«… vuoi vedere che le persone riescono a fare un cammino comune non tanto se vogliono educare gli altri – sfinendoli – alle proprie abitudini, ma piuttosto accogliendo e accordandosi con le certezze e le ombre degli altri?»

Da questa infanzia Teo compirà un salto pindarico verso l’adolescenza: la fase dei turbamenti, delle prime scoperte, e di un vuoto talvolta inspiegabile e incomunicabile.

Il Teo adolescente conoscerà per la prima volta l’infatuazione che diventa amore, la noia che si trasforma in fervore durante alcune lezioni scolastiche e, infine, la morte.

In questa seconda parte, la narrazione dei fatti è inusuale: sin da subito il lettore si imbatte in una nuova esistenza, in nuovi pensieri, in nuove sensazioni e, soprattutto, in nuovi interrogativi. Conosciamo, per la prima volta, Vera.

«Se il problema, mamma, non fosse capire, o crescere, e nemmeno cambiare, ma fosse semplicemente star bene?».

In medias res, l’autore pone al centro dell’attenzione il perno intorno al quale ruota l’intero mondo di un adolescente: l’irrefrenabile e dolorosa ricerca di una felicità, inspiegabilmente perduta.

Teo conoscerà Vera, se ne innamorerà perdutamente e, nell’esatto momento in cui gli sembrerà di aver raggiunto la vetta della felicità, si ritroverà – stremato – a valle.

Teo – attento osservatore sin da bambino – non riuscirà a penetrare quella dura corazza di Vera. Nonostante i segnali, nonostante la crescente preoccupazione che si insinuava in lui, Teo verrà catapultato in una realtà nuova e del tutto inaspettata.

«Poi, in quel minuto di gratitudine, prese vita una sorta di epifania. Un pensiero balenò fra gli altri e si fece spazio ad azzittire tutto il resto. Fu un pensiero netto, inspiegabile che parlava più o meno così: stai ringraziando per la bellezza di tutto questo, ma a te di questo tutto manca ancora conoscere una parte essenziale».

È qui – con l’avvento della morte – che Teo diventerà uomo per «cercare un senso al proprio cammino».

Il lettore seguirà il Teo universitario, il Teo professionista e, infine, il Teo marito e padre attento.

In un vortice di eventi, Teo piano piano riuscirà a fare pace con il suo passato e a collegarlo al suo presente.

«Siamo pezzi di infinito. Provare a sperimentarlo, nelle libertà sconfinate di ciascuno, può essere un cammino da fare da soli e con le persone che amiamo, cominciando chiudendo gli occhi in silenzio, osservando il moto invisibile del nostro respiro, quel filo sottile che al Tutto ci unisce e ci rende uguali e vivi».

A distanza di anni, la morte lascerà quel senso di vuoto e incertezza, per librarsi nell’aria, come un fuoco pirotecnico pronto ad incendiare il cielo e rallegrare gli animi.

Quest’ultima parte ha riacceso in me molti ricordi, anche dolorosi. Allo stesso tempo, però, mi ha riportato alla mente una poesia che mi ha aiutato nei momenti più conturbanti della mia esistenza e che scrivo qui, concludendo questo viaggio comune.

Sono andati via tutti –
blaterava la voce dentro il ricevitore.
E poi, saputa: – Non torneranno più -.

Ma oggi
su questo tratto di spiaggia mai prima visitato
quelle toppe solari… Segnali
di loro che partiti non erano affatto?
E zitti quelli al tuo voltarti, come niente fosse.

I morti non è quel che di giorno
in giorno va sprecato, ma quelle
toppe di inesistenza, calce o cenere
pronte a farsi movimento e luce.
Non
dubitare, – m’investe della sua forza il mare –
parleranno.

(La spiaggia, Vittorio Sereni)

Anna Rita Ambrosone