Bruce Chatwin diceva «camminando si risolve» (credo citando un qualche proverbio asiatico raccolto chissà dove) Uhm… Cristina dice che guidando le vengono in mente un sacco di idee…

se sei tu però al volante, se no è una cosa troppo passiva. Il guaio è che, ovvio, scrivere allora ti mette un po’ male. Bisognerebbe fermarsi, in città allora è più facile…

… ci sono i semafori, le soste forzate.

L’aridità dell’aria è nata così. È ispirata a Just like you said it would be di Sinead O’ Connor. Ho cominciato a scrivere delle cose che avrei voluto sentire. Che sono cose assurde perché mi rendo conto di scrivere testi assurdi.

È impossibile trovare delle storie nelle sue canzoni, piuttosto frammenti, pezzi di immagini, lei… lui, sì, potrebbe essere, mah.

Sì, perché quei testi [quelli di Tregua, ndr] sono nati senza sapere in realtà che sarebbero diventate canzoni. Sono un po’ dei collage. Per questo lavoro ho fatto molta più fatica… Ho cominciato tardi a scrivere cose mie, comunque. Sono partita dalle melodie, dalla musica. Poi ho cercato di trovare un modo di scrivere più semplice possibile, per me. È un’esigenza che avverto fortemente ora, in molti aspetti della mia vita, a partire dalla scelta dei vestiti che metto. Accade che le cose che ti arrivano direttamente magari ti facciano paura. Può succedere allora che tu le veda come delle cose superficiali o banali. In realtà sono proprio quelle, che ora voglio scrivere. Penso che dipenda anche dall’età. E poi si tratta comunque di fare della comunicazione, in qualche modo, no? Questo per quanto riguarda il secondo lavoro. Il primo nasce con l’inconsapevolezza di diventarlo. Ti dici: che mi importa? Dopo qualche domanda in più te fa fai, ti domandi ‘ma a me che cosa piace ascoltare’, ma anche ‘che cosa pensi sia utile’. Pensi di dovere arrivare, se non al maggior numero di persone, però, sì, a ‘qualcuno’.

Tregua (1997)

C’è un pubblico che ti aspetta, ora.

Sì, ma saperlo, sentire che c’è un pubblico che conosce ed è legato a quello che hai fatto prima, può essere anche una trappola. La sento molto questa cosa e spesso mi condiziona.
Viviamo nella confusione totale, si dice che si pensa poco, ma secondo me siamo invece molto cerebrali. Tutto sembra poterci travolgere. C’è questo bombardamento, da un lato, di cose. E dall’altra l’apatia. Tutti questi stimoli, finti, che ti arrivano addosso, ma che in realtà non ti provocano assolutamente nessuna reazione. Tu pensi… o forse non pensi proprio…

Ti lasci attraversare, o forse nemmeno, lasci che tutto ti scivoli addosso. Mi pare di aver capito così.

Anche questo disinteresse che avverto per l’importanza del movimento, anche proprio fisico, che è una palestra per la mente, una disciplina. lo non ho mai fatto sport e questo mi dispiace molto.

E torna questa specie di fenomenologia del movimento e dello ‘spostarsi’ di cui si diceva all’inizio. Curioso.

Per quanto riguarda la composizione dei testi, io lavoro molto per immagini. Quando ho cominciato a scrivere canzoni poi, non volevo narrare delle storie perché era la cosa che più mi infastidiva nella tradizione cantautorale italiana… Però mi piacerebbe imparare a fare anche quello. Ci ho provato con Nido [che darà il titolo al disco], che è una delle cose più belle che penso di aver scritto, che mi piace di più. E che nasce dal desiderio di raccontare la storia e le sensazioni di un nido, di una cosa che è molto esposta, e che come tutte le cose che io vedo esposte e chiare è forte, ma nello stesso tempo è fragile.

Poi si parla di letture.

Una cosa che mi dispiace di non aver fatto è non aver letto libri d’avventura quando ero bambina. Leggo Peter Handke, a proposito della tristezza degli europei… [sorride]. L’avevo scoperto, poi avevo telefonato a Claudio Galuzzi, che lo amava molto, e lui, poco prima di morire, mi aveva parlato de I colori del giorno che è dedicato a Cézanne. lo proprio allora avevo notato come questa montagna che si vede dalla finestra della mia cucina, cambi ogni giorno, ogni ora… Strana coincidenza… Ora sto leggendo una raccolta di frasi di Keith Jarrett, si chiama Il mio desiderio feroce: fa impressione

Il primo concerto?

A 25, prima degli Afterhours: io, da sola, voce e chitarra. Era il 15 gennaio del ’91, il giorno dell’ultimatum dell’America a Saddam Hussein, e io non sapevo se avere più paura per il fatto che potesse scoppiare una guerra, o se dipendeva dal primo concerto. Ero terrorizzata.

Erano pezzi tuoi?

No, c’era 1 mio pezzo in inglese. Funzionava così allora: io scrivevo in cristinese, e poi c’era questo mio amico di allora, che adesso è mio marito, che me li traduceva in inglese vero! Lui mi diceva: cazzo ma ci sono già le parole, io devo solo tradurle… ci sono già! E io: be’, fantastico. [Risate] Quel pezzo è diventato poi Raso e chiome bionde. L’inizio dell’altra diceva prendo l’uscita, quella giusta, ora io dico mi è rimasta una porta ancora, chiusa dall’esterno. Un’altra canzone. Facevo gli U2, Sinead O’ Connor, i Waterboys, che mi piacciono molto, Michelle Shocked, che mi piace, quest’anima folk…

Giorgio: Ed è bello che a questo si accompagnino invece questi chitarroni che ogni tanto arrivano…

Quello è Manuel.

E materialmente proprio, questo disco come è stato realizzato? In Tregua abbiamo visto che è stato utilizzato addirittura un 4 piste.

Questo disco è abbastanza particolare. In realtà avevo intenzione di fare un disco acustico, e avrei dovuto lavorare con Mauro Pagani proprio per questo. Poi ci sono stati un po’ di problemi organizzativi fra me e lui ed è stato chiamato Manuel. Lui ha sentito delle cose che io avevo registrato su 4 piste, per esempio la prima parte di Nido, che a lui piaceva moltissimo, e ha detto «questa bisogna assolutamente tenerla così è bellissima così». L’idea sua era quella di assemblare delle parti, non tanto quelle fatte col 4 piste con quelle registrate in studio, ma anche tagliare delle versioni, diverse, realizzate in studio: che so, prendere una strofa di una versione e aggiungere un ritornello di un’altra. In effetti ci sono delle cose che a livello emotivo, nelle prime stesure hanno qualcosa che poi si perde, che poi non c’è più, per quanto tu possa eseguirle bene. E questa cosa è una cosa che colpisce molto la sensibilità di Manuel. Ci sono persone cui invece non interessa questo fato delle cose. Ci saranno cose che richiameranno Tregua, a livello di suoni. Per il resto fa differenza è che ora io ho una band, che prima non c’era: ci saranno quindi tutti pezzi suonati dal vivo [siamo alla Next, ragazzi! C’è un megastudio dove negli anni ’60 registravano le orchestre RAI, un posto dove respiri la Storia…]. Magari di quella versione terremo la batteria e basta, per dire. Il risultato è che è meno… meno dritto, meno preciso, ha più aria, insomma: io ci tenevo a questa cosa.

Nido (1999)

Giorgio: che ne pensi di quello che c’è in giro

Mi piacciono molto gli VIII Padiglione: Bobo [Rondelli] è, secondo me, un attore nato, un bravissimo cantante. Una cosa che uscirà e sarà bellissima è Ginevra Di Marco. Poi Marco Parente: abbiamo scritto un pezzo in 2. Finalmente non faccio i cori: è proprio un duetto. Marco è uno dei personaggi più originali che abbiamo: un misto tra il Brasile e la Francia e l’Italia. Quello che mi preoccupa è il fatto che la gente ha sempre più bisogno di qualcosa che la ipnotizzi, mentre se c’è bisogno di seguire, di fermarsi ad ascoltare, bah… non lo fanno. La difficoltà, in Italia, è essere strani. Devi essere subito identificato, se no…

‘Pazienza’ è un termine desueto quasi quanto ‘grammofono’ nel vocabolario
dell”ascoltatore’ italiano medio. A proposito di Beck:

Mi piacerebbe saper fare un disco come Mutations [sorride] Poi c’è questo giovane cantautore canadese Rufus Wainwright [sua madre era una delle McGarrigle Sisters]. Mi piace molto, ha fatto un gran disco.

PJ?

Ci sono delle cose che non sopporto proprio a livello acustico. Ci sono delle cose un po’ forzate, nell’ultimo disco. Nido ha forse qualcosa di quelle atmosfere…

Giorgio: tu sei un po’ PJ, dai…

Me lo ha detto la prima volta Cesare [Malfatti, La Crus], dopo un concerto: sei un po’ ‘pjarviana’… Io non la conoscevo, allora. Avere quella voce sarebbe vabbè… io invece mi ritrovo un po’ sottile…

Ma è a proposito di scrittura che Cristina dice ancora una cosa a registratore ormai spento.

Bella. C’è una differenza tra chi semplicemente fruisce delle cose create e chi invece scrive ed è la vulnerabilità, perché spesso ci si sente in balia di qualcosa di più grande… Le volte che non ti viene una frase, non riesci a capire quanto puoi fare affidamento su te stesso e quanto invece possa dipendere da qualcos’altro… Questa cosa io la sento tanto.
Se c’è un lavoro dello scrivere poi, è una costanza nel ricercare qualcosa.

Intervista a cura di Barbara Basso

Discografia aggiornata

  • 1997 – Tregua
  • 1999 – Nido
  • 2000 – Goccia (EP)
  • 2003 – Dove sei tu
  • 2004 – Cristina Donà
  • 2007 – La quinta stagione
  • 2008 – Piccola faccia
  • 2011 – Torno a casa a piedi
  • 2014 – Così vicini
  • 2017 – Tregua 1997-2017 Stelle buone