Era arrivata a Parigi. Aveva diciott’anni. Veniva da Saïgon, da quella colonia del sud-est asiatico a cui i francesi avevano dato il nome di Indocina. Poi c’era stata la guerra. Il suo primo marito, lo scrittore Robert Antelme, era uscito miracolosamente dal campo di concentramento di Dachau. Lei, mentre lui non c’era, si era ridotta a una specie di larva in una lunga attesa estenuante. Un nodo di dolore e speranza. Antelme era tornato e Duras aveva deciso di raccontare le miserie di quel corpo scheletrico che aveva atteso, dei liquidi in cui ora si disfaceva, e delle cure delle sue mani di donna. Il racconto, La Douleur, apparve non a caso sul primo numero della rivista femminista Sorcière. Antelme se ne risentì forse per l’inclemenza di parole quasi impronunciabili, quelle che macchiano, lasciano tracce di orina e odori nauseabondi. Marguerite non avrebbe dovuto denudare l’autore di L’Espèce humaine, l’uomo. Duras invece sentiva di dover raccontare il suo dolore di donna, l’altra metà della storia, senza inibizioni, senza nient’altro che il corpo a cui la barbarie ha ridotto l’uomo. Un racconto essenziale come una di quelle foto in bianco e nero di quegli occhi fuori delle orbite, di quegli scheletri ammassati che dopo vedremo e rivedremo senza mai riuscire a crederci del tutto.

C’era stata la resistenza e le torture dei prigionieri che avevano collaborato con il regime fascista. Poi, l’euforia del dopoguerra, la fame. L’iscrizione al partito comunista fino alla revoca della tessera perché viveva con due uomini di cui uno era il marito e l’altro l’amante. Lo strazio per la morte del figlio concepito con Antelme nato prematuro, un cadaverino che le suore le impedirono di vedere e piangere. Si era gettata in una nuova relazione con Dionys Mascolo, che lavorava alla Gallimard, la casa editrice con cui Duras pubblicava. Il primo romanzo, Un barrage contre le Pacifique, era uscito e lei lo aveva portato alla madre, Marie Donnadieu. Aveva viaggiato fino alla Loira per raggiungere il finto château dove si era ritirata. Glielo aveva portato per ferirla, forse. Lei, Marguerite, proverà a ricucire una continuità con la madre nel unico luogo in cui poteva, nella scrittura, nel buco della scrittura dove oltre al dolore e alla rabbia per quella madre che non l’amava abbastanza, si sente forte anche la pietà per la misera donna in cui la vita con i suoi lutti e le sue ingiustizie l’aveva trasformata. Ma la madre lì non voleva seguirla. Solo le restava la forza di seguire il figlio maggiore, che era sempre stato in fondo l’unico figlio.

Quante cose erano già successe nella vita di Duras… Perché nella sua vita era sempre stato troppo tardi, come dice con quella frase assoluta delle prime pagine di L’Amant.

Ha quarant’anni, ed è al centro della sua vita parigina. Quella che ruota attorno al numero cinque della la rue Saint-Benoît. Cerchia di uomini soprattutto, perché, come ricorda Jean Cléder, la scrittrice si è imposta in una cultura fortemente maschile. E da lì dentro ha costruito liberamente un gesto, un perimetro tutto suo. C’è il triangolo Antelme-Mascolo-Duras. Vanno e vengono Morin, Blanchot, Bataille e tanti altri.

È il tipico appartamento parigino. La luce giallognola dei paralumi ricoperti da veli trasparenti. I mobili dei rigattieri, i fiori secchi nei vasi e nelle bottiglie, i centrini di uncinetto, i libri dappertutto, la cucina, la lista della spesa, riso profumato, senza marca, quello che si compra negli alimentari vietnamiti. Le cene che riempie con la sua risata, i silenzi, le parole roche, il desiderio, il desiderio di piacere in un continuo gioco di seduzione e provocazione. La voce, soprattutto, e il suo timbro. La voce risuona, si spoglia, spoglia le parole. La voce in off che racconta se stessa nei suoi film, e fa accapponare la pelle. Voce suadente, erotica. Le parole che cadono come folgorazioni e si attaccano alla voce. Sassi gettati nell’acqua sbiadita. Parole solide come luoghi, che solo le donne sanno abitare davvero, come sosteneva lei. La parola è un angolo buio, un’ora deserta. In genere dalle parole escono altre parole, come da un cappello da mago. Le parole di Duras, invece, inghiottiscono le parole, le risate e le grida. Le mot-trou, come diceva lei.

Tutto sta per cambiare di nuovo, come quando si era innamorata di Mascolo e aveva avuto un figlio da lui, Outa, mentre viveva ancora con Antelme. Un nuovo bonheur è dietro l’angolo: la passione brutale per Gérard Jarlot, giornalista, dongiovanni, desideroso di diventare uno scrittore famoso. Con Jarlot, Duras conoscerà un’altra parte di sé e comincerà ad abbandonarsi veramente a se stessa. E così anche la scrittura cambia e inizia a “scriversi” veramente (“s’écrire vraiment”).

Con Jarlot, Duras trova il piacere e la libertà di percorrere il suo labirinto interiore, di arrendersi a quella ragazza che viene dalla stradina di Réam. La strada dell’infanzia. Quella polverosa, sommersa dalle piantagioni di riso e dalle maree che le invadono, la stradina dove passavano le carrette dei cacciatori di tigri. La strada d’uscita da quel dolce inferno.

Con Jarlot scrive sceneggiature. Siamo a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta. Marguerite è passata al cinema, come il prolungamento naturale di quel gesto di svuotamento della frase che non vuole dire né mostrare. Frase, parola, immagine, piano fisso, fotografia. “Tu me tues, Tu me fais du bien”, si dicono gli amanti di Hiroshima mon amour (1959). “Tu me tues, Tu me fais du bien”, si dicono Duras e Jarlot.

La fine della storia con Jarlot la conosciamo già. Perché per Duras l’intrigo non conta. Nemmeno la frase e lo stile contano. Contano solo le parole. E il motore primordiale che spinge i protagonisti della storia verso l’azione, che già ci è stata annunciata, cola nei buchi della scrittura, nelle parole vuote. Ed è quello dietro cui corre la scrittura fugace di Duras. L’écriture courante.

Cléder spiega come nel racconto della passione, Duras scelga sempre il limite. Da lì, dal limite che scivola come un baratro, dalla fine della storia, Marguerite inizia a raccontare. Si sofferma sul logorio e sull’incomunicabilità dei corpi. L’incontro non potrà mai avere luogo, gli sguardi degli amanti si spiano attraverso un gioco di specchi, per incontrarsi fuggevolmente solo nel riflesso, mai nello sguardo dell’altro. La normalità borghese ovviamente non le è mai piaciuta. Anzi si è sempre più accanita a mostrarne la banalità.

Guardando indietro, la relazione con Mascolo, con cui pure aveva vissuto in un anticonvenzionale ménage à trois, era stata in fondo la relazione della banale felicità di coppia, l’unione della coppia generatrice con le sue inibizioni e i suoi maledetti egoismi sotterranei. Con Jarlot, Marguerite invece esce allo scoperto e cavalca fino in fondo il nomadismo della passione amorosa. Nella notte nera del lutto per la morte della madre, sulla terra nera i corpi degli amanti si inseguono, gemono, orinandosi addosso, gemono nel clamore dei ricordi. Ma in realtà quel limite lei lo aveva già sperimentato da subito. Da ragazzina. Con i fratelli e con il cinese.

Per i suoi biografi, Adler, Petriganni, Nené, come la chiamava la domestica Dô, diventerá Marguerite, poi Duras, una specie di caricatura di sé stessa. A fare del durassismo, del sur-Duras.

Dopo Jarlot, tutto si rompe di nuovo, per ricomporsi ancora una volta. Di nuovo dal bonheur al malheur, dalla vita alla morte. Perché Duras è così, non sa essere moderata. Se ne infischia della moderazione. Dopo Jarlot arrivano la dipendenza dall’alcol e la solitudine. Una specie di “ravissement” nelle stanze della casa di Neauphle-le-Château, le uniche che, come raccontava, aveva abitato veramente. Sono le stanze buie, le stanze delle visioni, della follia di Lol (la protagonista di Le ravissement de Lol V. Stein), della morte di Anne Marie Stretter (protagonista del ciclo India song, Son nom de Venise dans Calcutta desert e Le viceconsul). Sono le mura, parentesi di tempo in cui sono esiliate o si autoesiliano le donne.

Per Marguerite la stanza come luogo di solitudine e di tristezza, di stregoneria, nel senso di possibilità di contatto con qualcosa di inaccessibile, è emblema della condizione della donna. Per troppo tempo la cultura patriarcale ha relegato la donna in questo spazio. E la sua personalità si è come abituata a costruirsi e distruggersi rispetto a questo spazio, rispetto all’ordine e al disordine di questo spazio. Come lo filma Chantal Akerman nella sua Jeanne Dielman. È uno spazio di torpore, di rimuginamenti. È l’harem delle concubine del re sul lago spettrale di Hanoi.


Per Duras in quegli anni è lo spazio della scrittura, di fantasmi, di immagini che non fissano l’immagine ma solo la possibilità di una direzione appena intravista, uno spazio fuori campo, un’ombra che si ritira. E questa stanza che architettonicamente è un ricettacolo, ha l’ambizione di farsi una scrittura o un racconto cinematografico che invece non contiene niente, la soglia dove comincia il silenzio. Lì la scrittura si fa inaccessibile e cieca.

Dopo arriva l’ultimo amante, un ragazzo omosessuale. E lei lo chiama Yann Andrea. Di nuovo arrivano l’alcol e le cure di disintossicazione, il coma e la vita. Arriva l’alcol, quello che ti distrugge il corpo, lo gonfia, lo ammazza. Marguerite non si riconosce in quel corpo ma non può fermarsi. Continua a bere disperatamente. Beveva già con Jarlot. Beveva per abbandonarsi a quella relazione violenta, per dimenticare il desiderio onnivoro di Jarlot. Ma allora Marguerite si sentiva ancora giovane e seducente. Ora con Yann è tutto diverso. È l’estate degli anni ottanta. Nella dipendenza ci sono la paura, la perdita. E il desiderio così poco convenzionale per Yann non calma più la disperazione, ma fa parte di lei.

La scrittura si disfa, i film si costruiscono sulle rovine dei film precedenti. Una scrittura del disastro. Je ne parle de rien. Un enigma indecifrabile. E tra queste macerie, Marguerite Duras pubblica L’Amant. Arriva il successo internazionale, il premio Goncourt, e Duras, tra censure e caricature, diventa una icona intramontabile.

Il corpo non è più desiderabile, ma la voce, quella che parla e che scrive, quella che l’alcol libera, lenisce e distrugge, si riappropria del corpo e lo rende desiderabile. Trascorsa l’estate dell’84, l’estate dell’uscita dell’Amant, Marguerite decide di farsi intervistare da Bernard Pivot, autore della famosa trasmissione Apostrophes. Jean Cléder vede una Marguerite che decide di presentarsi al pubblico vestita sobriamente con quella che sarebbe diventata una specie di uniforme, occhiali dalla montatura grossa, su un viso sempre più squadrato, gilet su un maglione a collo alto, un tubino, ai piedi dei trochetti. Come se la donna volesse mettere davanti alla telecamera solo le mani e la testa pensante. I vestiti e gli accessori sarebbero dovuti restare in secondo piano. Eppure, a riguardarla, l’uniforme non riesce ad annullare la frivolezza. Simone de Beauvoir nei suoi turbanti, gli occhi bistrati di azzurro acqua di Maraini, le gonne indigene di Frida Khalo… tanti anelli alle dita e bracciali capricciosi, Duras. Lo sguardo compiaciuto è lì, inevitabilmente. Ma Duras sa che il suo potere, e anche la sua femminilità, stanno nella voce che pensa e mette le parole. La voce che lega la testa al corpo. E quella voce è così seducente e potente che cambia tutte le regole del gioco. Grazie alla voce che racconta l’Amante, Marguerite sostituisce al corpo piccolo, gonfio, incartapecorito, il volto liscio, fresco della ragazza bambina che attraversa il Mekong. Per farlo non ha bisogno di nascondersi, di giocare con le date, o mostrare sul risvolto di copertina una foto dell’autore di qualche anno prima. Lo fa mostrando se stessa. E il corpo acerbo e impudente della ragazzina della foto, che sarebbe una specie di immagine primaria da cui nasce il romanzo, quella di lei sul traghetto, corpo di parole e resuscitato dalle parole si incolla sul corpo di Duras senza lasciare spazio a nessuna discordanza. Attraverso la scrittura , Duras si riappropria del suo corpo di donna, ne disegna le fattezze e l’età, confondendo, sopprimendo, ridicolizza e si schernisce degli stereotipi dell’immaginario maschile.

E questa immagine quintessenziale è sempre stata lì dietro la scrittura di Duras. È un’immagine esotica che racchiude in sé suoni che ipnotizzano, calore che morde, odore d’incenso, opalescenze. Da quell’immagine, Duras non si allontana mai del tutto.  Nemmeno quando i personaggi non sono sua madre, i fratelli, il cinese, Dionys, lei… Anche quando i personaggi si sfibrano, non sono altro che l’uomo, la donna, elle, lui, delle allegorie, dei fantasmi, delle voci criptiche, quasi indecifrabili. Anche nel deserto della sua scrittura filmica così allusiva (dépeuplement, dice Duras a proposito dei suoi film). Quando i corpi così voluttuosi entrano in conflitto con la parola e non si accordano al racconto. L’erosione della sintassi crea un labirinto di parole che stanno lì come statue, tracce di immagini che non corrispondono al racconto. E tutto accade nella mente di Duras. Ed è tutto così claustrofobico tra risonanze, distorsioni, e ripetizioni.

Anche quando Marguerite evade dalla sua vita, dalla coppia, per naufragarci dentro, per perdersi dentro, nell’orgasmo della parola e del ricordo, l’immagine è sempre lì.

All’origine della scrittura c’è l’infanzia, o meglio una pubertà travestita d’infanzia, vergine e innocente. All’origine della scrittura c’è la memoria, una memoria che inganna se stessa. Memoria che nello sforzo brutale di rimemorare, di avvicinarsi sempre di più a quel pericoloso fantasma che ci portiamo dentro, di mostrare senza fronzoli l’inafferrabile che abbiamo dentro, si allontana dall’infanzia, mente, trasfigura e così facendo si avvicina a quello che siamo diventati. Disperatamente tesa tra quello che siamo stati e quello che siamo.

A quel qualcosa che in qualche modo è all’origine della scrittura di Duras si può dare un nome: possiamo chiamarlo Indocina. L’Indocina è il mio nome. Ombra interna. L’Indocina è sempre là che si chiami Firenze, Tarquinia, S. Thala, Savannah Bay, Calcutta… È sempre stata là, tra lei e tutto il resto. Marguerite la custodisce. È il suo territorio. È il luogo del suo corpo, della distruzione del suo corpo, è il luogo dell’amore, è il luogo della scrittura.

L’Indocina è la terra dell’innocenza e della perdita dell’innocenza. Marguerite, lei, l’innocenza l’ha perduta presto. Prima, molto prima di salire sulla limousine del cinese. Quando ha quattro anni e la morte del padre rientrato in Francia malarico soffia come un brutto presagio nei corridoi della casa di Phon-Phem. Nella stanza del collegio di Saigon. Quando lascia la Cambogia, si allontana dal villaggio paludoso e dalla palafitta di Prey Nop, o dalla borgata di Sadec per rientrare a Saigon sul piroscafo sola, lontano dalla madre. E lei per qualche motivo ha una consapevolezza precoce della propria femminilità ed è aperta a ricevere l’erotismo, quella corrente sessuale della città, ad Hanoi, Vinh Long, Saigon, che esce dai postriboli e dalle fumerie d’oppio, ristagna nei palazzi del recinto reale di Phon-Phem con le sue cortigiane e spose bambine. Nella città divisa tra quartieri asiatici e quartieri europei, lei si vedrà bianca come gli europei a cui appartiene, ma povera come una vietnamita. Lei desidererà avere una carnagione più bianca come quella delle mogli di ambasciatori e alti funzionari, magre, alte, eleganti. Ma si sentirà anche più forte e conturbante di quelle donne perdute e annoiate. Perché sentirà di possedere qualcosa che lei chiama l’intelligenza del rapporto sessuale. Anche lei divisa, accoglie quello strano miscuglio di palpitazioni che arrivano dalla vita all’europea nei saloni dei palazzi art deco, l’Hotel Continental, il Majestic sulla rue Catinat che lambisce quella misera dei vietnamiti ai margini. Duras si porta dentro l’eco di commistioni della città coloniale, che cresce in una incertezza irrisolvibile, tra simboli superstiti, reminiscenze, e soprusi.

Marguerite ha quindici anni e mezzo. Porta quel famoso cappello di feltro da uomo, quel misero vestitino di seta consunto, stretto in vita da una cintura pesante, quelle assurde scarpe lamé da sera con i tacchi, le labbra dipinte di rosso tokalon. Marguerite va con un cinese che non è né bello né brutto. Ma che importa! Il cinese ha la pelle color miele, lavata dalle piogge. Indossa un completo di tussor. Se ne sta timidamente nella sua limousine Leon Bollé. Lei lo desidera perché lui la vuole, perché lui la desidera con forza e con paura. Marguerite desidera il desiderio dell’uomo di prenderla, di violare quel corpo minuto. Marguerite desidera l’ammirazione spietata che il cinese sente per lei.

L’Indocina è anche la terra dell’incesto, sfiorato, sussurrato, forse realizzato, forse non realizzato mai completamente. La notte scorre nei corridoi della scuola di cui la madre di Marguerite è direttrice. Marguerite si stringe al corpo del fratello minore, le petit-frère, Paulo. È un abbraccio materno. Lei lo vuole proteggere dalle angherie e dai soprusi del fratello maggiore, l’ainé, Pierre. Forse lei ha già perso la verginità con il cinese. Forse questo abbraccio è accaduto prima. Lei e Paulo si stringono nella paura del fratello più grande. La paura paralizzante e traumatizzante di Paulo. La paura di Marguerite della paura di Paulo. La paura di Marguerite che Pierre possa ammazzare Paulo. La paura di Marguerite che la madre lasci che Pierre ammazzi Paulo. Si stringono, lei e Paulo, nella paura e nella gelosia di quel fratello maggiore. Pierre la pecora nera della famiglia, uno sciagurato. Pierre che passa il tempo e butta i risparmi della madre nelle fumerie di oppio e nei postriboli. Pierre che ha occupato con prepotenza il posto del padre, morto quando Marguerite aveva quattro anni. Pierre che li batte. Pierre che manipola la madre, le ruba soldi e gioielli. Pierre il figlio amato da Marie Donnadieu. Di un amore che è come una corrente oceanica che travolge tutto, tutto il resto.

Marguerite e Paulo si stringono nella juissance, in una parola censurata, in una parola che conoscono senza poterla pronunciare, in una parola che poi Marguerite scriverà. Coppia vulnerabile e disarmata. O armata solo del potere distruttivo di un erotismo vietato.

L’Indocina è anche un paesaggio che rinasce inarrestabile dappertutto, altrove. L’acqua che scorre nei fiumi, nei rach, negli anfratti paludosi dove lei e il fratello piccolo si bagnano nudi. Le braccia del Delta del Mekong. L’acqua che scorre giù fino all’oceano. Più che l’acqua, il suo defluire, la corrente che travolge tutto, che è come una corrente interiore. E nell’acqua torrenziale del desiderio si naufraga. È un acqua torbida, che trascina sempre qualcosa, alghe, cadaveri di animali. L’acqua che trascina via le dighe costruite dalla madre per difendere le sue risaie. L’Indocina rinasce nelle acque di un fiume. Quel fiume è il fiume Rosso, è il Mékong. Nel caldo torrido di una estate sulla costa azzurra. Quel caldo è quello in cui sprofonda la terra delle risaie sul bordo dell’oceano Pacifico. In un lamento terrificante. Quel lamento è la litania di una mendicante che è arrivata scalza fino alla scuola della madre, con le piaghe ai piedi, per affidarle un neonato che purtroppo non sopravviverà. Il lamento è un grido stridulo d’uccello che si intreccia al tango di Carlos d’Alessio e preannuncia il grido del viceconsole a Calcutta in quella folata profumata d’incenso che è India Song. Nel gorgoglìo della vegetazione, dei profumi molli del giacinto, il gorgoglìo delle parole che verranno, della musica di Duras. La sua parola sensuale e il piacere di quella parola. È un paesaggio interiore che Marguerite rievoca nei romanzi e ricostruisce nei suoi film, girati nella casa di campagna comprata a Neauphle-le -Château o tra le rovine del palazzo Rotschield.

L’Indocina è la terra dell’ingiustizia che ha distrutto la madre. Della disgrazia. Della sconfitta. Della povertà. Del sopruso su una donna vedova, rimasta sola ad allevare tre figli, che perde tutti i guadagni di una vita acquistando dall’amministrazione coloniale francese delle terre bruciate dal sale dell’oceano ed incoltivabili. E non importa se sia andata veramente così come racconta Marguerite. Quell’immagine di una madre sola, ingannata da impiegati corrotti, e relegata nel più basso gradino della comunità francese bianca, è lì.

Questa ingiustizia, di cui la colonizzazione francese è emblema, rappresenta tutte le ingiustizie, tutti i soprusi, anche quello sofferto dagli ebrei. La ragione profonda dell’adesione al partito comunista, come gesto di identificazione e solidarietà per le vittime del sopruso. Questa ingiustizia subita dai coloni francesi che è consolata da una intimità con i paesani fonda più tardi l’appoggio della causa vietnamita contro l’occupazione francese e il capitalismo. Per questo la parola juif suscita un eco profondo in Duras. E questo ha a che vedere poi con il peso che Duras darà alla parola, alla scelta della parola.

L’Indocina è la terra dell’infanzia e di quella libertà che i bambini possono sperimentare solo nella povertà o semipovertà. In Althenopis, la scrittrice italiana Fabrizia Ramondino cavalca il suo paesaggio mediterraneo, saltando di pezza in pezza a rompicollo, come sollevata da una pertica invisibile, giù, a capofitto, verso la marina. Lì brillano limoni pane, le arance, il sole. E legato a quella natura colorata e accecante, ai suoi vicoli e antri, un dialetto di cui sopravvivono delle parole, come una lingua straniera, che ha la dolcezza e quasi la perfezione di una lingua materna. Il paesaggio dell’infanzia di Duras invece è la “brousse”, la fitta vegetazione tropicale, una selva ombrosa e umida, in cui non si più saltare di pezza in pezza, ma che bisogna osservare dall’alto, arrampicandosi sulle mangrovie. E da lassù, la pianura degli uccelli, circondata dalle montagne del Siam. I manghi proibiti nelle ore vuote del riposo della madre, dello sguardo estenuato e vuoto della madre. La miseria dei villaggi, la miseria e le pietre dei santuari buddisti, degli altari, i coltivatori e i pescatori curvi sotto il peso della vergogna della povertà quasi medicanti. La lotta anticoloniale sta per esplodere, esploderà dopo la guerra. E arriveranno le rivoluzioni di Ho Chi Minh e quella sanguinaria di Pol Pot.

Il paesaggio infantile di Ramondino è fatto anche di architetture. Le ville con i loro battenti, i mattoni di tufo. Quello rievocato da Duras è fatto soprattutto di umori muschiosi. Con questo paesaggio Duras si identifica totalmente. Tutto ciò che appartiene alla cultura francese è percepito come estraneo. Lo caccia fuori come sputa il cibo francese a cui il suo palato non è abituato. La lingua dell’infanzia è quella vietnamita, non la lingua materna. La cultura francese sarà una cultura acquisita. Il territorio dell’ingiustizia di classe subita dalla madre in cui Duras prenderà la sua rivalsa ridefinendo dissacrante la grammatica.

Ma, come per Ramondino, la stessa libertà dell’infanzia, impensabile oggi, perduta per sempre. Uno spazio immenso di proiezione. La vastità di questo spazio che renderà possibili infinite proiezioni e riverberi. Dove il gioco e la trasgressione sono realmente possibili. Dove le cose che ti rassicurano e che ti inquietano non sono codificate, ma realmente fantastiche. Uno spazio in cui si può andare fino in fondo.

Quel paesaggio per Ramondino resta però una piazza, un luogo circoscritto in cui la bambina proveniente da una famiglia nobile per parte di madre ma caduta in disgrazia, fa delle incursioni. Incursioni dovute alla povertà della guerra che le costringe in quel paese sulla costiera. Riverbero dell’infanzia a Mallorca dove il padre era console, scandito da un tempo limitato. Per Duras, invece, questo tempo indocinese ha i contorni di un dolce abisso di abbandono fatto di desiderio illimitato e del suo opposto un terrore senza limiti. Le epidemie di colera, peste, la malaria che ha ammazzato il padre. Luogo di incanto e di tragedia.

L’Indocina finalmente è la madre, Marie Donnadieu. La fortuna tentata dalla madre quando, giovane paesana, figlia di commercianti, decide di seguire il primo marito che è direttore di una scuola in Indocina. La solitudine e l’amarezza della madre quando resta vedova per la seconda volta con tre figli da sfamare. L’emarginazione dalla comunità bianca della colonia. L’emarginazione a cui Marie sbatte in faccia la solidarietà con gli indigeni, quando si rifugia nel bungalow di Prey Nop, dove impiega tutti i risparmi di una vita per farsi dare in concessione quel terreno incoltivabile invaso per una parte dell’anno dalle maree del Pacifico. L’emarginazione a cui Marie sbatte in faccia quei suoi figli disgraziati: Pierre un mezzo criminale, Paulo, il ragazzo diverso, Marguerite la mezza prostituta. L’emarginazione a cui Marie sbatte in faccia quel suo aspetto trasandato, i capelli raccolti in una treccia indigena, i sacchi di cui si veste, la sua severità. L’emarginazione e l’umiliazione che rivivono nel desiderio di Marguerite per le luci di rue Catinat, dove si divertono i bianchi, per quello che brilla fuori mentre lei si nasconde nel buio del cinema Eden, nel desiderio avido dello sfarzo di una languida signora bianca, Anne Marie Stretter, apparizione in un ballo a cui Marguerite non parteciperà mai, o parteciperà solo senza mai esserci davvero, come Lol V. Stein, sonnambula, nascosta dietro le piante.

L’Indocina è la madre. La fatica di questa donna collassata nella chaise longue, quasi senza vita, senza voglia di vivere, abbandonata alla sua depressione. Poi l’improvviso scoppio di allegria. Pierre non c’è, è stato allontanato, rimpatriato in Francia. Le secchiate d’acqua per sciacquare i pavimenti della casa. Marie al piano. Marie che vede come per la prima volta quel famoso cappello di feltro da uomo. Una specie di sguardo complice scambiato con la figlia. La fatica e la follia annidata in quei repentini cambiamenti d’umore. La madre è anche la violenza, le botte con cui Marie si scaraventa sopra Marguerite perché Pierre grida che se le merita, altrimenti finirà come una puttana. Le botte che la madre le infligge per evitare che sia Pierre a picchiarla a morte, per calmare Pierre, la sua furia, per salvarla da Pierre e dannarla per sempre.

Di tutto questo, di questa madre, Marguerite si vendica quando la abbrutisce, mente su di lei, la dipinge come una folle, violenta, depressiva, una donna che spinge la figlia minorenne a sedurre gli uomini per farsi sposare, che prostituisce la figlia per farsi pagare i debiti di Pierre, ostinata a costruire dighe sul Pacifico che non terranno all’incalzare delle maree, una donna che nella finzione del romanzo si rovinerà in quell’impresa assurda.

Marguerite si vendica, ma mai del tutto. Nello spiraglio si affaccia una donna una Marie più giovane, più bella, forse un po’ vanitosa, più mondana, una sconosciuta, quella che aveva sedotto il padre di Marguerite, suscitando l’invidia e le calunnie della comunità di maestri e istitutori venuti dalla Francia, quella che lo aveva amato alla follia, e che era ammattita dal dolore alla sua morte. Quella Marie la cui risata scoppia e crepita nelle labbra di Marguerite.

Marguerite ma petite misère.

Silvia Acierno