Anno 1 | Numero 6 | Marzo 1998

Ogni qual volta mi capita di imbattermi con la cultura giapponese (sia essa rappresentata in un film o in un libro), lo confesso, mi trovo spesso in preda ad un certo imbarazzo. La loro cortesia puntigliosa, il loro humor bizzarro… Lo so, colpa mia. Distanze. Per non parlare poi del cibo… Così questa volta, eppure… eppure questo paese mi attrae con i suoi tratti sempre leggeri e delicati, dipinto come uno dei loro vasi dai colori pastello intricato di giochi floreali, di fanciulle timorate… Così la sua letteratura, a me in gran parte sconosciuta, lo ammetto, mi piace ascoltarla nel suo sussurrare all’orecchio nei suoi parchi slanci affabulatori mai esibiti ma sempre percepibilmente sottesi. Così questo libro di Kenzaburo Ōe, Una famiglia (Mondadori Original, L. 18.000) uscito un poco per volta in Giappone sulle colonne di una rivista scientifica, sa ripercorrere, in un dettato dallo stile asciutto, quasi documentaristico, le tappe significative di un rapporto sincero. Già perché Ōe non è mai retorico, né tanto meno patetico, neppure quando ci ricorda lo sgancio della bomba atomica su Hiroshima o ci parla di parole come “compassione” e “tolleranza”. Hikari, il figlio primogenito dello scrittore, nato con una grave malformazione al cervello, è la figura che fa da sfondo a tutte le vicende narrate. I capitoli si presentano come delle rapide carrellate rivolte verso quelle persone che nell’arco della sua vita Ōe ha incontrato e amato e quindi medici, scrittori, studiosi ma anche tutte quelle altre persone meno note che hanno saputo vivere capendo il dolore degli altri uomini. Ecco allora il ricordo del “serio” dottor Nobuo Moriyasu, del dottor Fumio Shigeto, del professor Kazuo Watanabe, del poeta Shiki Masaoka etc…. tutti fantasmi, ora, tutti veri esempi di uomini, esempi, avrei quasi voglia di dire, se il termine non fosse così facilmente fraintendibile, di moralità. Ōe quindi, grazie a questo riflettersi in questi uomini e, soprattutto, nell’esperienza di vita con suo figlio cerebroleso (ora noto compositore, e il libro ne è anche un’orgogliosa puntualizzazione), racconta primo fra tutti se stesso e lo fa con grazia ma, anche, con la malinconia di chi è ben consapevole di essere giunto ad un’età dove a poco a poco si vedono morire le persone con le quali si ha condiviso una vita. Qualche volta mi trovo a pensare a quanto più ricca e profonda diventerebbe la nostra esistenza se tutti noi nella nostra vita di tanto in tanto potessimo sentire le voci di chi ci ha lasciato e ci manca. Sì, ma ciò che conforta, noi stessi, e in primo luogo Ōe, è la chiara sensazione che quest’uomo non abbia mai dimenticato di ringraziare queste persone care quando erano ancora in vita e di essersi sempre legato a loro con sincero affetto e gratitudine. Così questi brevi capitoli (scritti, è bene ricordarlo, nell’arco di diversi anni) si susseguono senza scosse, intrisi, e incisi, come su una stoffa orientale ricamata di precetti. Piace perciò questo scarto tra i temi affrontati, sempre complessi, e lo stile rapido e asciutto, un libro probabilmente scritto senza troppa disperazione ne troppa speranza. È un libro che riflette sulle vicende di uno scrittore e del proprio figlio compositore (la musica è l’unico canale attraverso il quale possiamo intuire ciò che avviene nel profondo del suo cuore) e sui loro rapporti con il resto delle famiglia dove il gioco delle parti sembra essere il più delle volte nelle mani del caso e del destino.

Ōe, in queste pagine, intreccia tematiche come la necessità dell’assistenza ai disabili o della dura accettazione dell’handicap tentandoci con il suo stile ma anche, e qui davvero con maestria, con brevi ma ponderate riflessioni intorno al mestiere dello scrittore e dell’artista in generale, intrecciando malattia (e sua accettazione) e letteratura. Letteratura qui vista come “via di fuga” ma al contempo nel suo potere taumaturgico di guaritrice e di ordinatrice di ciò che prima era solamente caos. Così le altre figure di grandi uomini di lettere che incontriamo in queste righe (Blake, O’Connor, Sartre, Gordimer) sembrano altrettanti esempi a cui Ōe si rivolge sicuro soprattutto di trovare la medesima passione per la vita e la scrittura. Ma lo scrittore non è solo, e_ oltre ai grandi della letteratura, Ōe ha una famiglia, una famiglia che pare gravitare intorno a Hikari (una moglie e altri due figli oltre la suocera, in casa), una famiglia che, anche con incertezze e momenti di stanchezza, ha saputo capire e porre al suo primogenito come a se stessa, nella maniera del cavaliere al cospetto del re che custodiva il Santo Graal, la domanda giusta, la domanda meritoria: “in che modo state seffrendo?”

Cristiano Dal Pozzo

 

‘‘Solo l’immaginazione può farci sentire il dolore di un altro.”

J.J. Rousseau

 

Kenzaburo Ōe è nato in un villaggio dello Shikoku (Giappone) nel 1935. Ha studiato letteratura francese presso l’Università di Tokyo. Nel 1994 viene insignito del premio Nobel per la Letteratura. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Il grido silenzioso (1987), Insegnaci a superare la nostra pazzia (1992), Ieri, 50 anni fa (1995), Un’esperienza personale (1996) e Gli anni della nostalgia (1997).

 

Il libro attualmente è fuori catalogo