Quando, dopo non pochi ritardi, Alba de Céspedes consegna all’editore Mondadori le bozze di quello che diventerà Dalla parte di lei, a seguito di una fase di gestazione non priva di ostacoli, l’autrice – forte delle migliaia di copie vendute con il precedente Nessuno torna indietro – non si aspetta da colui che considera innanzitutto un amico un commento non entusiasta sulla sua opera. Non si aspetta, soprattutto, un giudizio poco lusinghiero rispetto al finale del romanzo, definito «imprevisto», sebbene ci siano tutti i segnali perché si verifichi l’inevitabile. La risposta, che non tarderà ad arrivare, non lascia spazio a fraintendimenti: «Se rinascessi tornerei a scrivere questo romanzo e anzi vorrei poter rinascere per tornare a scriverlo. Soprattutto, lo scriverei con lo stesso epilogo».
Dalla parte di lei viene pubblicato nel settembre del 1949 nella appena nata collana Medusa degli italiani, con una tiratura iniziale di diecimila copie. Pur lontano dai numeri del libro precedente, il corposo romanzo viene già da subito accolto con favore (quattromila le copie vendute nei primi quattro mesi; meglio, comunque, di colleghi come Moravia o Vittorini, come recita una lettera di Mondadori del 1950). Un libro ambizioso, che supera le cinquecento pagine, raccontato come una lunga, dettagliata confessione della protagonista, Alessandra Corteggiani, dall’infanzia sino al momento in cui deciderà di riportare la sua storia in un memoriale.
Il desiderio di respingere sempre da sé, con forza, la detestata espressione di “romanzo femminile” sembra, in questo caso, necessario: il rischio, nell’approccio a Dalla parte di lei, è quello di relegarlo a opera di minore importanza, alla stregua di storielle dallo scarso valore letterario. Si rivelò essere, ed è tuttora, invece, uno degli affreschi più convincenti non solo della Resistenza e del Dopoguerra, ma anche e soprattutto della tragica commedia umana, di uomini e donne fatti di carne e desideri e ambizioni e sentimenti.
Perché Alessandra possa raccontare della prima volta in cui incontrò Francesco Minelli a Roma, il 20 ottobre 1941, è indispensabile che torni indietro, molto indietro, ai tempi della sua fanciullezza, da lei sempre ricordata come il periodo più felice della sua vita. Nell’appartamento che si trovava in uno dei grandi casamenti della periferia romana, la bambina (secondogenita, benché il fratello Alessandro fosse morto annegato nel fiume) è avvezza alla solitudine, abituata a restare sola con Sista, la domestica, mentre la madre è fuori per impartire lezioni di pianoforte ai figli delle famiglie abbienti, il padre in ufficio.
È lì, da quel rettangolo che illumina solo una parte di mondo – quella del cortile, del quartiere – che comincia la sua osservazione delle donne. Una trama, sembra a Sandi (come la chiama amorevolmente sua madre), unisce tutte loro, in una confidenza non dettata dalla conoscenza reciproca, bensì da un sentire comune, un vincolo profondo e forte dinanzi alla «gravosa commedia» della loro vita. È nella solitudine della sua stanza che nasce, in lei, un sentimento che si gonfierà, fino a esplodere in età adulta.
«Comprendevano infine la causa del silenzio che piombava, il pomeriggio, nel cortile deserto. Libere dai loro ingrati doveri, e anzi per un gesto di coraggiosa polemica verso la sorda vita alla quale erano costrette, nel pomeriggio le donne fuggivano le stanze buie, le cucine grigie, il cortile che inesorabile attendeva, col calare dell’ombra, la morte di un’altra giornata di inutile giovinezza. […] Le univa un muto, annoso disprezzo per la vita degli uomini, pel loro ordine tiranno ed egoista, un rancore che si tramandava, soffocato, di generazione in generazione.»
Il primo impietoso sguardo è, ovviamente, rivolto a suo padre, un uomo incapace di comprendere alcunché si trovi al di là dei propri bisogni. Lo stesso uomo che, spesso, rivolgendosi a lei o a sua madre, porterà il dito alla tempia facendolo girare (il segno di qualche rotella fuori posto). D’altronde, una donna che predilige l’arte e le lettere, o che si abbandona ai sentimenti, abbracciandoli anche quando nefasti, non può aderire al modello sociale che permette a lui, uomo e padre di famiglia, di sopravvivere, di avere un ruolo attivo nella società.
Ci sarà sempre, nel cuore di Alessandra, un primo unico grande amore, quello nei confronti di sua madre, Nora, la più bella, la più elegante, superiore a tutte e tutti. L’eco della sua persona la accompagnerà per tutta l’esistenza, non come un tormento, un fantasma, ma come il simbolo più alto della femminilità, della libertà.
Sebbene il romanzo, scandito in tre parti, dedichi il più ampio spazio all’incontro con Francesco (già anticipato nell’incipit e la ragione dell’intero racconto della protagonista), è interessante come in Dalla parte di lei a contare, sopra ogni cosa, sia in realtà mostrare, in maniera differente, cosa significhi essere donna. La prima parte, appunto, è di Nora, la madre, schiacciata dal peso delle scelte non fatte. Il legame filiale le imporrà la scelta più sofferta di tutte, ma forse l’unica possibile, la morte.
La seconda parte, la più breve, è quella in Abruzzo, dove una giovane Alessandra si trova a vivere assieme ai parenti paterni. Qui, è la nonna a imporsi nelle sue fattezze mastodontiche: Alessandra non condivide, con questo essere imponente e burbero, a tratti spaventoso, la medesima visione. Per lei, ovviamente, sua madre era stata straordinaria, in quel suo lasciarsi travolgere dalla corrente; per sua nonna, invece, non c’è alcuna straordinarietà nel rivelarsi come «alberelli senza vigore» perché la vera ribellione, nell’essere donne, sta nella rinuncia come massima espressione di forza e coraggio.
L’ultima parte non può che essere di Alessandra. Morigerata, vestita di nero, una donna semplice dai modi educati. Lei, che nella sua giovane vita aveva visto lo squallore delle convivenze coniugali, la vita faticosa e malinconica che tutte le donne conducevano, non poteva che desiderare di lasciarsi travolgere, proprio come sua madre, dall’amore. Dinanzi alla guerra, ai bombardamenti, ai rifugi, alla fame e alla povertà, solo l’amore può essere sufficiente e infondere il coraggio. Se nella sua memoria nessuna coppia è mai scampata al disfacimento, solo Alessandra e Francesco, per lei, possono resistere, purché quella bolla costruita con parsimonia non scoppi, purché possano continuare a riconoscersi l’una negli occhi dell’altro: «nel suo sguardo io ebbi per la prima volta coscienza di me stessa, dei mie occhi, della bocca, della spiaggia liscia della fronte, e infine comprendevo a quale scopo essi fossero stati disegnati sul mio viso».
La figura di Alessandra, ciò che rappresenta a confronto con le decine di altre protagoniste che hanno affollato la letteratura, è emblematica e indimenticabile. La predestinazione a un finale tragico sembra annunciarsi dall’inizio del romanzo, come è successo prima di lei ad altre e forse più autorevoli eroine letterarie. Eppure continuamente, nel libro, sono disseminate tracce di qualcos’altro. Alessandra non è uguale a sua madre: l’acutezza del suo sguardo, unita a una sensibilità del cuore smisurata, si tramutano in una lucida consapevolezza della propria natura e della propria sorte. La metaforica uccisione dell’uomo per mano di de Céspedes soverchia le regole sociali e ribalta così una tendenza, quella che Nadia Fusini ha definito omicidi bianchi, il suicidio della donna in risposta al sistema che la attanaglia.
«È una cosa che mi ha fatto sempre pensare.»
«Quale?»
«Questa premura che hanno gli uomini di salvare le donne da due cose soltanto: dalla fame e dalla morte, due cose che le donne temono come le teme la maggior parte di voi. E invece non pensate mai a salvarle da tutte le altre cose assai più temibili che sono attorno a loro, dentro di loro. Io non voglio essere messa in salvo.»
Giovanna Nappi
E tu cosa ne pensi?