Mia madre era una formidabile sterminatrice di mosche. In paese la morte delle mosche dipendeva dalle donne […]”.

Gli incipit sono una delle cose più misteriose e sfuggenti che esistano; chi dice che un buon incipit è quello che ti porta dentro la storia forse ha ragione, ma un incipit come questo de L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi (Exòrma, 2017), secondo me, è già la storia.

Marino Magliani appartiene alla categoria degli scrittori inquieti, quelli che si muovono nel tempo e nello spazio. E muoversi nel tempo e nello spazio è anche quello che fa il protagonista di questo libro: vive in Olanda, ma torna spesso, sia fisicamente che con la memoria, alla sua vita in Liguria e in Spagna; lo fa attraverso brevi e compatti cambi nella narrazione che assomigliano agli sciami degli stessi insetti citati nel titolo.

All’inizio sembrano slegati gli uni dagli altri, ma poi il ritorno costante dei temi e dei luoghi li fa confluire in un insieme coerente: i piccoli sciami diventano un unico grande sciame che si muove verso un finale, ma non una fine. Nasce una geografia tutta nuova fatta dei posti in cui il protagonista ha vissuto, dove l’elemento naturale e paesaggistico è imprescindibile e serve come punto di partenza per poter parlare dell’esistenza.

Precarietà esistenziale, nostalgia e morte sono i temi principali di questo libro che è allo stesso tempo un racconto di viaggio, un memoir, un diario – il narratore si rivolge spesso a un interlocutore, a volte un uomo, a volte una donna – un racconto sapienziale.

La mia impressione è che non ci sia niente di precostituito, ma che queste forme vengano fuori in maniera spontanea, in seguito alla necessità che il narratore avverte di volta in volta. La ricerca esistenziale non arriva a un esito, ma mette in luce, durante tutto il percorso rappresentato dal libro, l’eterno conflitto interiore che si può vivere con i propri luoghi e con le proprie scelte.

Carmelo Vetrano

Tutte le recensioni dei Lovers puoi trovarle qui.