1.

«Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio.»

Un libro che inizia così non si può non leggerlo.

La frase iniziale di Cent’anni di solitudine mostra il DNA del romanzo di Gabriel García Márquez, ne contiene ogni cellula narrativa e la fine.

Questo incipit è il big bang creatore di mondi e di vite, orbitanti e radicate a Macondo, la città degli specchietti. Il villaggio dove sette generazioni di Buendía, uomini e donne sono nati, si sono amati, si sono odiati, da dove sono partiti e tornati, dove sono morti, senza essere mai morti. Dove le donne vivono della potenza dell’amore e della magia, i bambini nascono con la coda di maiale, i vecchi sono eterni, come l’universo.

La frase finale?

«Tuttavia, prima di arrivare al verso finale, aveva già compreso che non sarebbe mai più uscito da quella stanza, perché era previsto che la città degli specchi (o degli specchietti) sarebbe stata spianata dal vento e bandita dalla memoria degli uomini nell’istante in cui Aureliano Babilonia avesse terminato di decifrare le pergamene, e che tutto quello che vi era scritto era irripetibile da sempre e per sempre, perché le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra.»

Una frase da fine del mondo.

Se sei negli ‘anta, vorrei che tu leggessi questa storia, perché racconta di noi che abbiamo vissuto l’arcaico tempo multidimensionale della materia e dello spirito, delle connessioni invisibili, dei simboli e delle generazioni, di noi che abbiamo visto bambini nascere e vecchi mondi morire, curiosi di conoscere quel che sarebbe venuto dopo.

Se invece sei giovane e ti sei perso tutto questo, leggere Cent’anni di solitudine ti consolerà del tempo presente, ti insegnerà che oltre la fugacità delle immagini, la potenza della parola crea storie e allevia la paura.

2.

Le parole scritte danno coraggio in tempi incerti.

Il giorno del famoso processo a Gesù, Ponzio Pilato aveva una forte crisi di emicrania e non diede granché retta a quel pazzo in tunica bianca che straparlava di regni nei cieli e padri eterni. Lo racconta il Maestro nel suo romanzo su Ponzio Pilato e Gesù di Nazareth, a causa del quale è trattenuto e “curato” in un ospedale psichiatrico, perché refrattario alle direttive letterarie del compagno Stalin. La sua amata Margherita ha lasciato l’ordinario marito, volando su una scopa dalla finestra di un comunissimo appartamento di Mosca, per correre in suo aiuto. La storia inizia con il casuale incontro di Margherita e Satana in persona, nei panni di Voland, accompagnato da una cricca di suoi aiutanti, tra cui Azazello e Korov’ev. La donna, in compagnia dei suoi nuovi amici, farà di tutto, ma proprio di tutto, per ritrovare e restituire il manoscritto al suo amato Maestro.

Il romanzo, all’interno del quale è contenuta la storia scritta dal Maestro, si intitola naturalmente Il Maestro e Margherita ed è di un geniale -credo che non ne esistano di non geniali da quelle parti- scrittore russo che si chiama Michail Bulgakov. In appendice al romanzo, Bulgakov allega una coraggiosa lettera aperta al compagno Stalin, le cui parole sono ancora purtroppo vive in quei paesi, dove chi ha il potere, comanda e pretende di comandare anche all’immaginazione.

Il Maestro e Margherita è un capolavoro e come tale ha la magia propria delle opere d’arte, è cioè evocativo. Dopo che lo avrete letto quindi, nessuna meraviglia se vi verrà voglia di leggere altri capolavori che Bulgakov aveva in mente, scrivendo il suo, primo fra tutti il Faust di Goethe, da cui rivivono i personaggi di Voland e di Margherita.

3.

La magia del romanzo di Bulgakov potrebbe raggiungervi anche nella vita vera, come è capitato a me. Mi è capitato infatti di incontrare Azazello e Korov’ev, che, nelle vesti di due buontemponi, prendevano il sole sulla riva del Po, in un pomeriggio di inizio primavera. Uno di loro mi sorride e io gli rispondo con un saluto della mano. Non so perché abbia risposto al saluto di uno sconosciuto, non è mia abitudine. L’uomo mi chiama e mi chiede se sono un’insegnante, dice di avermi visto da qualche parte. Proprio come Margherita, mi avvicino, forse per gentilezza. L’altro, con il pizzetto e uno scaldacollo tirato all’indietro sulla testa, mi dice che anche lui era insegnante, ma che ora si occupa di testamenti. Dell’Antico o del Nuovo? Gli chiedo, scherzando. Nessuno dei due- mi risponde. Lui si sente di più un fisiofoso o meglio un sofiosofo. Il primo, per togliermi dall’imbarazzo, mi chiede qual è il mio autore letterario preferito. Io parto ad elencare soprattutto scrittrici e quello a bruciapelo: Ti piace George Eliot? Non conosco. Gli consiglio a mia volta Il canto della pianura di Kent Haruf. Non conosce. 1 a 1. Mi allontano e l’uomo con il pizzetto mi sorride, dicendo che somiglio a Cristina Campo. Ha un incisivo mancante. Li lascio a litigare su a chi somiglio e una volta a casa cerco su Google “George Eliot”. Scopro che era una donna, inglese, scrittrice dell’800 che, per pubblicare i suoi romanzi, usava uno pseudonimo maschile. Middlemarch è il suo romanzo. Ordinato all’istante on line, il giorno seguente è nelle mie mani.

Dalle mie mani lo passo a chi vorrà leggerlo, vi troverà le vicende intrecciate di due innamorati alla ricerca dell’amore e della felicità, ingabbiati in matrimoni difficili nella verde provincia inglese di età vittoriana. Non si può sintetizzare la trama, perché è un’enciclopedia dell’amore, che si fa strada a fatica tra le convenzioni borghesi del capitalismo agrario e il rigore religioso. Azazello e Korov’ev si erano forse divertiti molto a leggerlo e con sfida e malizia me lo avevano regalato quel giorno sul Po. Nientedimeno che il più grande romanzo inglese, nell’opinione di Antonia Byatt, Virginia Woolf ed Emily Dickinson:

Tre volte felice colei che è sì ben sicura
Di sé, e così decisa nel suo cuore,
che né dal meglio sarà attirata
né teme il peggio per qualche sfortuna passare

Ma, poggiando sulla propria inalterabile forza,
né a questo ella si piega né a quell’altro.
Più di tutti felice colei che sicurissima resta,
ma più di tutti felice colui che una tal donna più di ogni altra ama.
(George Eliot, Middlemarch, p. 364 ed. BUR)

Maria Antonietta Nigro