Tra le strade e le piazze di Firenze – in mezzo alla sua gente derelitta ma salda, viva – nasce Vasco Pratolini. La città toscana e chi la abita sono i suoi primi ed eterni amori, i soggetti privilegiati (e quasi unici) della sua scrittura: in ogni pagina quei luoghi splendono dell’affetto del loro autore, anche e soprattutto nei recessi rifiutati e miserabili. Lungo il percorso pratoliniano – che parte da racconti che ripercorrono con voce nostalgica i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza, per aprirsi poi alla collettività, dopo l’esperienza della guerra e la partecipazione alla Resistenza – un momento di passaggio è costituito da Cronaca familiare, del 1947, opera in massimo grado privata, ma, allo stesso tempo, testimonianza profondamente politica di uno scontro fra classi.

Il romanzo si presenta quasi come una lunga lettera scritta dall’autore al fratello, morto nel 1945: il discorso è infatti scandito dal tu a lui rivolto dalla voce narrante, che rende il racconto della travagliata vicenda familiare «un colloquio» privato, come suggerisce la nota Al lettore posta all’inizio. Qui si legge: «questo libro non è un’opera di fantasia»; ma nonostante le vicende siano ancorate fortemente alla realtà della storia familiare dell’autore (il titolo ci ricorda, infatti, che stiamo leggendo una cronaca), l’intreccio assomiglia quasi a quello di una fiaba o di un avventuroso racconto di formazione.

Un neonato, Dante, viene affidato dalla famiglia a una coppia di contadini, a causa delle difficoltà createsi in seguito della morte della madre per le complicazioni del parto, e per via dell’assenza momentanea del padre, ferito in guerra. Un giorno, per caso, un ricco barone e il suo autorevole maggiordomo rimangono colpiti dalla bellezza del bambino e decidono di salvarlo dalla sua sorte di orfano: lo fanno crescere tra le mura della ricca dimora del nobile, ma gli tolgono l’identità popolare, mutandogli perfino il nome da Dante a Ferruccio. La famiglia originaria – costituita essenzialmente dalla nonna e dal fratello maggiore – mantiene i contatti con il piccolo nel corso di tutta l’infanzia, ma la differenza profonda tra la ricca e austera esistenza del bambino e la vita vivace ma povera dei suoi parenti allontana sempre più i due fratelli, rendendoli estranei separati da un’ingombrante mole di rancori e incomprensioni. L’avvicinamento arriva molto tempo dopo, quando i ragazzi, ormai tra l’adolescenza e la giovinezza, si rincontrano per caso e cominciano a ricostruire un nucleo familiare ridotto all’osso intorno alla figura della nonna, rappresentante di una possibilità di famiglia mai realizzata e depositaria di tante memorie: alla sua morte, la donna lascerà in eredità ai nipoti il definitivo consolidamento del loro rapporto.

Mentre la ferita familiare viene ricucita, quella sociale rimane aperta e insanabile. A ben vedere, infatti, l’intimità della Cronaca familiare sbiadisce di fronte al valore civile e politico delle sue pagine: al centro del romanzo non c’è altro che un ricatto perpetrato dai privilegiati ai danni delle classi più povere. Ferruccio viene tolto alla famiglia e destinato a un’infanzia di certo dorata, ma arida del calore umano che, secondo Pratolini, è esclusivo del popolo: «il vero amore è dei poveri», ci viene ricordato e, forse, non esistono parole che racchiudano meglio l’essenza pratoliniana. Ferruccio si carica fin dall’infanzia di gesti e abitudini – la merenda con crostini alla marmellata di arance, i vestiti sempre in ordine, i modi eccessivamente formali – che lo condannano alla solitudine, una volta cresciuto: «ti mancava quella fiducia che proviene ad un uomo […] da una società che lo ha visto nascere e crescere, in mezzo a cui è sempre vissuto e in virtù della quale si sente circondato da una solidarietà collettiva […]. Tu eri escluso, invece, al di fuori del cerchio».

Nell’ultima parte del romanzo è vagheggiata una possibilità di riconciliazione, tragica perché tardiva. Ferruccio è malato gravemente e ricoverato in ospedale, visitato soltanto dal fratello. In queste occasioni avviene un fugace inizio di educazione politica, che presenta il comunismo come una speranza dell’uomo negli uomini, cosa che avrebbe aiutato l’emarginato. L’argomento principale di questi colloqui, però, è la figura della madre (centrale nella prima produzione pratoliniana e soprattutto in quest’opera), mai afferrata del tutto dai figli, perché assente nella morte. Proprio il desiderio di Ferruccio di una maggior definizione dell’immagine materna spinge Pratolini ad assumere definitivamente il ruolo di letterato: «se sei uno scrittore, descrivimela. Dimmi qualche cosa che me la faccia immaginare viva», dice il malato nelle ultime settimane di vita. Così, Ferruccio invita Vasco a compiere il salto dalla condizione di appassionato autodidatta proletario a quella di scrittore completo, e lo fa sia direttamente, attraverso le sue richieste, sia indirettamente, con la sua morte, che, infatti, è all’origine della composizione della Cronaca.

Ferruccio non guadagnerà mai il proprio posto nella comunità degli uomini tanto amata da Pratolini, come sottolinea un ultimo banale colpo del destino che gli viene inferto. Una delle sue richieste di malato rivolte al fratello è quella di assaggiare ancora la marmellata d’arance che era stata uno dei tanti piccoli segni della sua snobistica alterità di bambino privilegiato. Tuttavia, la penuria causata dalla guerra (siamo nel 1945) rende infruttuosa la ricerca e mantiene insoddisfatto il capriccio. Solo dopo aver lasciato Ferruccio per l’ultima volta prima della morte, Vasco troverà la rara prelibatezza, come un beffardo rifiuto finale pronunciato dal mondo nei confronti del fratello. Preso dal personale «rimorso di avere appena intuita la spiritualità» di quest’ultimo, e di averlo fatto «troppo tardi», Pratolini tenta, con la sua Cronaca familiare, di restituire quella fragile e incompresa figura all’ambiente da cui era stata tolta all’inizio: alla comunità degli umili e al suo umano calore.

Dario Giolito

Leggi la presentazione di ’900 italiano a cura di Enrico Bormida e Andrea Borio