Attraversiamo i Balcani per arrivare in un’altra terra di conflitti, la polveriera d’Europa: una terra unita a forza e ridivisa a più riprese, lacerata da lotte intestine, scontri tra “tribù”, dissapori esasperati da odi religiosi, ma anche terreno di scontro tra grandi imperi (su tutti, la guerra Austro-Turca). La Jugoslavia, scrive Brodskij nell’introduzione all’edizione americana di Una tomba per Boris Davidovič di Danilo Kiš, “nei suoi confini accoglie una dozzina di nazionalità. Con relativi credo religiosi e gruppi di appartenenza etnica… Inutile dire che tutti questi gruppi nazionali hanno molti conti, vecchi e nuovi, da regolare. Ogni posizione ideologica è perciò considerevolmente impregnata di nazionalismo. E viceversa.”

IVO ANDRIĆ
Tra i più grandi scrittori del ‘900, insignito, unico Jugoslavo, del premio Nobel per la letteratura, ma anche figura politica di spicco, strenuo sostenitore dell’indipendenza dei popoli slavi dall’impero, diplomatico con incarichi prima in Vaticano, poi, soprattutto, a Berlino (dove incontra Hitler), fiero oppositore dei regimi fascisti e sempre dalla parte del suo popolo, Andrić ha saputo raccontare come nessun altro e, a suo modo, celebrare, la complessità di questo Paese, le sue tragedie e la sua bellezza, la sofferenza e l’orgoglio dei popoli che l’hanno abitato, far rivivere i grandi stravolgimenti che hanno segnato per sempre uomini e cose.
Bosniaco di nascita, ma mitteleuropeo per formazione e universalmente riconosciuto come scrittore serbo, nel suo capolavoro, Il ponte sulla Drina, Andrić racconta cinquecento anni di storia, simboleggiati proprio dal ponte che, voluto dal visir Mehmed Pascià, allo stesso tempo unisce (due sponde, due popoli, due mondi) e divide, perché simbolo dell’oppressione ottomana. Romanzo affascinante, poderoso, è, allo stesso tempo, affresco storico di una terra martoriata (Višegrad, dove si svolgono le vicende narrate, è stata da sempre punto di incontro/scontro tra civiltà, razze religioni e culture) e romantico e sofferto racconto delle vicissitudini quotidiane di un popolo rassegnato, ma mai domo, dei suoi drammi, gioie, amori e sofferenze.

Ma non è di questa meravigliosa opera che parleremo, bensì di una piccola gemma nella produzione letteraria di Andrić: dalla periferia ci spostiamo nella capitale, con i Racconti di Sarajevo.
I racconti, per lo più brevi, coprono un arco temporale che va dalla seconda metà dell’Ottocento ai primi decenni del Novecento. Protagonista assoluta è la città: le sue strade, i suoi vicoli, case e palazzi, i colori, gli odori, i sapori e i paesaggi che la circondano.
I personaggi si muovono attraverso le stradine strette, chiacchierando sottovoce, sommersi dai rumori della città, o se ne allontanano per poter parlare più liberamente. Sono Slavi, Austriaci, Ottomani, amici e nemici, vecchi e giovani, giovani che diventano adulti, vecchi che ricordano la propria infanzia. Mentre grandi avvenimenti stravolgono il mondo e mutano di continuo l’aspetto della città e gli equilibri tra i suoi abitanti, bastano piccoli episodi per innescare ricordi: un odore, un oggetto, un’immagine, un paesaggio, un volto una voce. La penna di Andrić scorre leggera e veloce, dando vita ai luoghi, paesaggi naturali e antropizzati. Luoghi, brulicanti di vita come la carsija, o apparentemente chiusi in se stessi, come le case confinanti di ebrei, cristiani e musulmani… queste case, silenziose e poco illuminate, sembrano come tramortite, ma l’apparenza inganna.
Questa città che spesso, così verso sera, gli appare come una prigione di rumori e di suono, un paesaggio di enigmatico e pericoloso silenzio
Buio e silenzio celano, dietro l’apparente immobilità, ansie e inquietudini. In quest’atmosfera spesso cupa, pesante, si aprono a volte squarci di bellezza (una collina indorata dal sole, una ragazza che scende lungo il vicolo ondeggiando, un tramonto fiammeggiante).
I grandi eventi (l’ingresso dell’esercito austriaco a Sarajevo nel 1878, lo scoppio della prima guerra mondiale, i rastrellamenti degli ebrei) sono raccontati sempre attraverso gli occhi dei cittadini, spesso dei più umili. Sono soldati, mercanti, artigiani, insegnanti, studenti, piccoli funzionari, che vedono le proprie vite sconvolte da decisioni calate dall’alto, ma che, nonostante tutto, si adattano a qualsiasi mutamento; la storia si svolge sopra di loro e malgrado loro. I racconti parlano di una città da sempre teatro di invasioni e lotte, di convivenze forzate tra popoli di diversa origine, cultura, tradizioni e, soprattutto, religioni. Di odi mai sopiti, che covano sotto la cenere, di sentimenti malcelati di rivalsa che sfociano in rivolte e soprusi a seconda di come si alternano i ruoli tra dominanti e sottomessi, tra vittime e carnefici. Ma anche tra gli oppressi la convivenza è difficile, perché diverse sono le condizioni di vita in base alla classe di appartenenza e ai rapporti coi potenti di turno. Tutti i racconti sono permeati da sentimenti di rassegnazione e di paura invisibile e contagiosa, impotente solo dinanzi a coloro che non temono perché si battono… La paura trionfa e piega l’uomo ovunque sia possibile, come un filo d’erba.
Andric ha la straordinaria capacità di tramettere la dimensione della tragedia attraverso il racconto della quotidianità, svelando come anche gli stravolgimenti nella vita dei protagonisti divengano parte della vita stessa, come la consapevolezza che tutto ciò che si è costruito possa andare distrutto. Abitudini e usanze sconvolte e cambiate si trasformano in rassegnazione, in accettazione del proprio destino e oltremodo labile diventa il confine tra il lecito e l’illecito e tutto finisce con l’apparire in qualche modo possibile e consentito. Singoli destini si confondono e si sciolgono nel comune senso dell’esistenza, confluiscono nel tragico destino della città. Alla brama di potere, alla tensione verso la conquista e la supremazia, fa da contraltare la miseria della propria esistenza, divorata da ansie e paure, povera di affetti. Ritroviamo uomini cui la storia, il fato hanno addossato compiti più onerosi di quelli che il loro coraggio, la loro forza, il loro intelletto possano sopportare, come il Van Loon di Guccini, Uomo destinato direi da sempre ad un lavoro più forte che le sue spalle o la sua intelligenza non volevano sopportare. Mediocrità, noia, frustrazione generano piccoli e grandi abusi di potere, in piccoli burocrati con piccole e meschine aspirazioni, animati da un’esigenza di apparire, di essere riconosciuti ad ogni costo, senza avere alcuna qualità per cui potersi distinguere.
Allo stesso tempo, però, molti personaggi, anche nella miseria, nel terrore, nella sofferenza, mantengono una loro dignità. In essi giorno e notte la coscienza si ribella all’abbrutimento, ma più si acquisisce consapevolezza dell’orrore, più si sprofonda in esso.
Il racconto Il luogotenente Murat è probabilmente l’apice di tutta la raccolta: simbolo della ciclicità della storia, del suo stanco ripetersi in un’eterna lotta per il potere, in questo scontro tra mondi diametralmente opposti eppure così simili nella tragicità del proprio destino. Deformazione della verità, senso di rivalsa, possibilità di sopraffare chi, per qualsiasi ragione, ci è stato finora superiore scatenano gli istinti più bassi e feroci, soprattutto nella plebaglia, e in qualche modo richiamano alla mente la favola del leone morente (Ho sopportato orgogliosamente le offese dei nemici forti, ma ora, poiché sono costretto a sopportare l’offesa di un asino, disdoro della natura, certamente muoio due volte), perché il confine tra tragedia e farsa è sempre labile.
Alla fine della lettura, ci restano impresse due verità: che la miseria dell’esistenza e la tragicità dei destini di uomini e popoli ci accomunano più di quanto non ci dividano e che più si espande un impero, più diviene palese la sua caducità, l’assenza di radici.

DANILO KIŠ
Passiamo da un grandissimo scrittore a un altro: Danilo Kiš, una delle figure più originali della letteratura europea del ‘900. Al tempo stesso amato e osteggiato in patria, osannato all’estero, soprattutto da certa critica “alternativa”, autore di quell’opera straordinaria, fuori da ogni schema, assolutamente inclassificabile, che è l’Enciclpedia dei morti, una raccolta di racconti in bilico tra reale e fantastico, tra cronaca e misticismo, un saggio sulla storia, sulla religione, un dispensario di massime universali, un’opera strabordante di energia, sorretta da una scrittura sempre fremente, sempre in tensione allora i suoi miracoli e la verità della fede cristiana erano soltanto una delle verità di questo mondo e non l’unica verità; allora il mondo era un mistero, allora la fede era una illusione, allora non c’era più un solido punto d’appoggio per la sua vita, allora l’uomo era il più grande dei misteri, allora l’unità del mondo e della creazione era un’incognita.

È su un’altra eccezionale opera di Kiš, però, che voglio qui soffermarmi: Una tomba per Boris Davidovič (sette capitoli di una stessa storia).
Anche questa ha la forma di una raccolta di racconti, che si rivelano alla lettura come una intera partitura di sette variazioni su un unico tema (come indicato anche dal sottotitolo): quello della sopraffazione, dell’abuso di potere, dell’esasperazione dell’ortodossia, in tutte le sue declinazioni, politiche o religiose che siano, della persecuzione degli spiriti liberi o di chi, pur non ribellandosi apertamente, fatica ad adeguarsi o, più semplicemente, rappresenta, per la sua stessa essenza, l’altro rispetto al modello dominante, al pensiero unico.
Il libro ebbe una genesi difficile e fu pubblicato solo dopo molte traversie in Jugoslavia nel 1976. La sua pubblicazione suscitò una reazione feroce da parte del regime e dei suoi adepti, con una caccia alle streghe contro l’autore che finì col procurargli un crollo nervoso. Se, da una parte, questa reazione esagerata nei confronti di un romanzo sì storico, ma che affronta una storia distante nel tempo e nello spazio (i protagonisti sono tutto fuorché slavi: sono russi, polacchi, rumeni, ungheresi, addirittura irlandesi e con qualche comparsa francese) appare finanche ridicola (se non fosse in qualche modo tragica), dall’altra è l’esatto specchio di quello che il libro descrive, esecra, condanna: la ferocia del regime, l’individuazione di un nemico, di una vittima sacrificale contro cui scatenare la barbarie del popolo. L’autore diviene, suo malgrado, emblema dei protagonisti dei suoi racconti, anche se non ne condivide il destino tragico. Con i racconti di Una tomba per Boris Davidovič attraversiamo, in un viaggio rocambolesco e turbolento, per terra e per mare, gran parte dell’Europa: un’Europa dilaniata dalle guerre, oppressa dai totalitarismi, umiliata ed esasperata. In questo viaggio verso la morte, ci guidano coraggio e anelito di libertà, ma pure cinismo, crudeltà, viltà e spirito di vendetta. I racconti sono ambientati soprattutto nell’Europa dell’Est, dove il terrore ha il volto feroce del regime comunista, ma non solo, perché le mille peripezie dei protagonisti ci portano, direttamente o indirettamente, altrove: in Irlanda, con Gould Verschoyle, che seguiremo anche su diversi fronti (soprattutto in Spagna e Messico), ovunque il suo spirito rivoluzionario possa trovare una causa per cui combattere, per poi perderlo nella grande madre Russia, e ritrovare il suo cadavere nudo e congelato esposto in un lager kazako come ammonizione per coloro che sognavano l’impossibile; in Francia, dove assistiamo al massacro degli ebrei nella Tolosa del Trecento (unico excursus storico della raccolta). Tutti i protagonisti dei racconti sono in perenne movimento, in fuga da un destino crudele (ma solo per incappare in una fine anche peggiore), spinti da un ideale, alla ricerca di una salvezza o di una dannazione. Tutti, nessuno escluso, finiscono per perdersi, per essere fraintesi e traditi. Proprio la tragicità e ineluttabilità del destino è il tema principale dell’opera di Kiš, assieme a una feroce e indomita condanna di tutti i regimi e di ogni dogmatismo.
Sono storie di maschere e tradimenti, di delitti spietati, di ferocia e di passione, di vendetta, di violenza individuale e collettiva.
Kiš racconta la Storia nelle sue declinazioni più abiette, cita le fonti, mescola abilmente realtà e finzione, come nei racconti di Borges (vengono alla mente Finzioni o Il libro di sabbia) ed è sicuramente debitore nei confronti degli scrittori russi contemporanei (a partire da Solženicyn).
A rendere più duri i suoi racconti, al di là della crudezza dei temi, è la scrittura di Kiš: potente, viscerale, capace di scavare nelle pieghe della storia come negli anfratti più reconditi degli animi. Intensa, dura, spietata, non lascia spazio all’indifferenza né al pietismo, ma scova, accusa, condanna, di fronte agli uomini e alla storia, le nefandezze compiute nel nome di un bene superiore. È proprio tenendo presente il filo conduttore di questa “crociata” contro gli esasperati ideologismi che possiamo comprendere la scelta di inserire una storia apparentemente avulsa dal contesto (l’unica ambientata, come detto, in un’epoca diversa), come quella del racconto Cani e libri.
Sono convinto che se vogliamo comprendere come siano attecchiti non solo nei Balcani, ma in tutta Europa, i germi che hanno infettato lo scorso secolo, quale sia la genesi di molte delle tragedie del ‘900, quanto profondo sia l’orrore generato dai regimi, quale la follia che ha animato i totalitarismi, dobbiamo immergerci nella lettura delle opere di questi meravigliosi scrittori, in grado, al contempo, di donarci, tra i racconti di queste immani tragedie, sprazzi di poesia e di bellezza.
Fabio Sarno
E tu cosa ne pensi?