Proseguendo il nostro viaggio, siamo arrivati nell’Oriente più occidentale, alle porte dell’Italia.

Predrag Matvejević – VENEZIA MINIMA
Anzi, con Predrag Matvejević, primo protagonista di questa tappa, sconfiniamo nel Belpaese, anche se nella città più orientale d’Occidente (l’arma cristiana è al varco dell’Oriente, cantava Guccini in Asia, a proposito del leone di San Marco), la Venezia “perla dell’Adriatico”.

Del resto, Matvejević, tra i più grandi scrittori croati e il più tradotto al mondo, è uomo di mare (oltre che di straordinaria cultura). Il suo capolavoro Breviario mediterraneo (che gli valse il premio Strega europeo) è un affascinante viaggio attraverso il mare nostrum e le terre che vi si affacciano, di cui nei secoli ha assorbito e trasmesso lingue, culture, tradizioni. Il Mediterraneo non è solo geografia. – scrive Matvejević– I suoi confini non sono definiti nello spazio, né nel tempo. Non sappiamo come fare a determinarli e in che modo: sono irriducibili alla sovranità o alla storia, non sono né statali né nazionali… Sul Mediterraneo è stata concepita l’Europa.

Narra di porti e di isole, di lingue e dialetti, di Dio e di vino, di religioni (osannate o perseguitate), di cultura e distruzione, tenendo come filo conduttore l’indagine etimologica sulla parola “Mediterraneo”. Come scriverà Claudio Magris nella prefazione all’edizione italiana del 2006, in Breviario mediterraneoLa cultura e la storia vengono calate direttamente nelle cose, nelle pietre, nelle rughe sul volto degli uomini, nel sapore del vino e dell’olio, nel colore delle onde.” Ritroviamo la stessa scrittura in Venezia minima, una scrittura capace di dar vita a vicoli, piazze, canali, oggetti apparentemente insignificanti. Una scrittura che diventa “materia e sensazioni” scrive Raffaele La Capria. E tangibili sono le sensazioni che trasmette questo libro, che ci guida attraverso calli e canali alla scoperta di angoli, aneddoti, targhe, suoni, rumori, professioni, lasciandoci nelle ossa l’umidità di una città appoggiata sul mare.

Come si fa a raccontare un luogo amato, dipinto, narrato nei secoli da artisti anche straordinari? Cosa si può scoprire di nuovo, come si può catturare l’attenzione del lettore guidandolo alla scoperta di una città divenuta icona di sé stessa? Matvejević lo fa scegliendo di raccontarne la grandezza partendo dal basso.

Pubblicato per la prima volta nel 2003 con il titolo di L’altra Venezia, nel 2009 viene riedito in versione ampliata con il titolo definitivo di Venezia minima, che meglio rende la struttura e lo spirito di un’opera così difficile da classificare. Minima nel senso etimologico del termine, perché costruita partendo da minuscoli frammenti, che incasellati come tessere di un mosaico, uno di quei meravigliosi, ricchissimi mosaici bizantini (Venetiae quasi alterum Bysantium) vanno a comporre un quadro di impareggiabile bellezza. Un punto di vista differente, non uno sguardo d’insieme, ma un’analisi ravvicinata, un’attenzione certosina al dettaglio, a cogliere il più piccolo particolare della città più inverosimile che ci sia. Matvejević ci conduce per mano alla riscoperta di una città unica, utilizzando tutti i sensi: ne scopriamo, infatti, i colori, come il giallo, il rosso e l’oro dei tramonti, la ruggine (anch’essa sfarzosa, perché a Venezia non vi è nulla di umile o plebeo), il nero della notte, con l’oscurità che nella laguna comincia sulla frontiera che divide la costa e il mare, il grigio della pietra (patere e formelle) e di semplici sculture murali (soprattutto teste di uccelli e gli immancabili leoni), il verde, l’azzurro, il bianco o il rosa delle piante e dei fiori che spuntano tra le fessure dei muri e sotto i balconi e di cui percepiamo anche i profumi, come pure annusiamo il profumo del pane appena sfornato, o l’odore del mare, delle alghe e del legno marcio.

“Venezia non può essere paragonata che a sé stessa” scriveva Goethe nel suo Viaggio in Italia, rappresenta un unicum, una città uguale a nessun’altra, nata per caso, in un luogo malsano, inaccessibile, scelto come rifugio, grazie a uomini e donne che hanno per necessità cercato sicurezza nella situazione più sfavorevole e ne hanno fatto la loro forza, l’hanno resa a loro propizia e hanno, nei secoli, creato non solo una gemma ammirata da tutti, ma una potenza temuta, un nome conosciuto, amato e odiato da Oriente a Occidente. Ma, come abbiamo già sottolineato, non è la Venezia dei mercanti e dei Dogi che Matvejević racconta, ma quella di chi questa grandezza ha contribuito sì a costruirla, ma ne ha raccolto solo briciole e frammenti.

E queste briciole e frammenti noi raccattiamo per calli e anfratti, rubandole dai racconti di cantori ciechi (del resto, il vero racconto può farlo solo chi non guarda il mondo attraverso i propri occhi, come Omero), alle insegne e alle lapidi. Cerchiamo pane (la Venezia dei forni, in cui anche ogni convento ne aveva uno, e dei panicuocoli) e vino (un’ombra de quel bon). I continui scambi con terre vicine e lontane permettono di trovare una varietà mai vista di prodotti; soprattutto il pane a Venezia riassume e condensa tradizioni: mescola razze e influenze assai diverse e divergenti.

La scrittura leggera e precisa di Matvejević, attraverso le tracce minori lasciate dal passaggio di milioni di uomini provenienti da ogni luogo, nobili e plebei, bifolchi e gran dottori, ci fa ripercorrere venti secoli di storia, che si sono sedimentati in questa città, o meglio, in quest’idea di città, ricoprendola di una patina di malinconia e lasciando migliaia di frammenti sul fondo, che nessuno più coglie. Il libro è uno e mille racconti, uno e mille saggi, ma è anche la storia di quella parte di Mediterraneo, l’alto Adriatico, e degli intensi e difficili rapporti tra le sue opposte sponde, così vicine eppure, spesso, così distanti.  


Boris Pahor NECROPOLI
Proseguendo il nostro viaggio, il legame con l’Italia si fa sempre più stretto. Boris Pahor nasce a Trieste, terra di confine, un confine perennemente conteso: è Italia, all’epoca, ma lui, come tanti altri, non potrà mai sentirsi italiano; sente, anzi, forte l’appartenenza alla propria comunità, quella slovena, una minoranza a lungo perseguitata: al bambino a cui era capitato in sorte di partecipare all’angoscia della propria comunità – scrive Pahor – che veniva rinnegata e che assisteva passivamente alle fiamme che nel 1920 distruggevano il suo teatro nel centro di Trieste, a quel bambino era stata per sempre compromessa ogni immagine di futuro.

Quella dei rapporti tra italiani e sloveni, tra le diverse etnie dei territori confinanti e sempre contesi di Istria e Dalmazia, è una storia di commistioni, anche di amori, ma soprattutto di conflitti, di esodi e contro esodi, di persecuzioni reciproche, anche di massacri. Ovviamente, è una storia talmente complessa da essere assolutamente fuori dalla portata di queste poche righe, ma la testimonianza di Pahor, i frequenti riferimenti alle situazioni di disagio ed emarginazione vissute fin dall’infanzia, in quella che continua a considerare casa propria ci inchiodano a una verità storica ineluttabile: la storia si ripete, inesorabilmente, i popoli non hanno memoria, le minoranze ovunque vengono perseguitate, l’odio genera odio, la violenza genera violenza.

In Necropoli Pahor parte da una “visita” fatta assieme a un gruppo di turisti al campo di concentramento di Natzweiler-Struthof, per ripercorrere gli orrori delle persecuzioni naziste, l’abominio dei campi di sterminio, vissuti sulla propria pelle, e di cui, come tutti i sopravvissuti, porta cicatrici insanabili nel corpo e nell’anima.

Passato e presente si alternano e si mescolano in un racconto asciutto, ma coinvolgente. Il romanzo inizia con l’ammissione dell’autore della propria incapacità di accettare che quel luogo cardine del mio mondo interiore possa essere accessibile a tutti. La prima sensazione che prova nel vedere i turisti muoversi tra le testimonianze di quegli orrori è come di intimità violata, come se sentisse che solo a chi ci è passato spettasse l’esclusiva di tornarvi, perché questi sguardi curiosi non potranno mai penetrare nell’abisso di abiezione in cui fu gettata la nostra fiducia nella dignità umana. Ma c’è distonia anche nel suo percorso, perché la memoria si sovrappone al presente, ma le scene non corrispondono.  È difficile ricollocare l’orrore all’interno di quel paesaggio tranquillo, quasi ameno. Allora la mente spazia, cerca un confronto con luoghi altrettanto familiari, ma meno intrisi di dolore e tristezza. Poi il racconto si immerge in quell’abisso di sofferenza e atrocità, ne tira fuori ricordi nitidi, rievocati con tutti i sensi e che, allo stesso tempo, colpiscono i sensi del lettore. Scopriamo che anche le malattie mortali perdono la loro minacciosità di fronte alle atrocità viste e vissute, che anche nel comune stato di annientamento e degrado, nella condivisione dello stesso barbaro destino, permangono il senso di appartenenza alla propria comunità e la diffidenza verso chi, nel mondo dei vivi, ci è stato nemico, anche se nell’uguaglianza comune di fronte alla fame e alla cenere non era evidentemente possibile restare ancorati a certe prerogative

Anche per chi ha letto Levi e Kertész immergersi in questo baratro attraverso la testimonianza diretta di un grande scrittore è come riaprire una ferita, è un’esperienza che non può non turbare. Seppure gli orrori e le atrocità suonino come già noti, le diverse sensibilità, lo stile, la percezione differenti fanno affiorare aspetti, avvenimenti, sensazioni nuovi e sconvolgenti. In Necropoli vediamo come i corpi amorfi perdano la loro unicità, la loro individualità, la loro umanità, per fondersi in un’unica entità, un solo corpo gemente. Soffriamo con l’autore/protagonista, viviamo la sua lotta per la sopravvivenza, i suoi sforzi continui per non lasciarsi sopraffare dall’orrore, per non disumanizzarsi: la paura diventa il pane quotidiano, ma la cosa più difficile è estraniarsi dalla morte, che permea di sé ogni cosa. Mantenere la lucidità può salvarti la vita: la sopravvivenza all’interno del campo si basa, inevitabilmente, su un meccanismo di accettazioni ed esclusioni.

Anche la normalità della morte, la sepoltura dei corpi, confrontata con l’orrore dei campi di sterminio , dei forni crematori riconcilia, paradossalmente, con la vita.

Si viene sopraffatti dallo sconforto, si scoprono gli abissi della proprie debolezze. Per salvarsi ci si isola, anche per non dover gestire suppliche che non si è in grado di esaudire. Eppure, anche in questo baratro di squallore e disumanizzazione, si percepiscono sprazzi di umanità. Nonostante nulla faccia presagire una possibilità di migliorare la propria condizione e fame, malattie, percosse abbiano ridotto ai limiti della sopravvivenza corpi e menti, la percezione della fine imminente di quel mondo di terrore riaccende una fiammella vitale. Non ci si vuole arrendere alla disperazione, non si accetta di essere impotenti di fronte a una fine già scritta, a una giovane vita ormai spezzata (affiora a tratti un’eco della pietas Virgiliana di fronte alla morte dei giovani).

Eppure in alcune pagine di Necropoli ritroviamo quella patina di indifferenza nei confronti di tutto ciò che lo circonda, quella sorta di amara rassegnazione, che si traduce in spirito di sopravvivenza, che caratterizza Essere senza destino di Kertész. Apatia e rassegnazione (perché tutti ti danno e si danno per spacciati) si innescano, però, in Pahor, su uno spirito forte, indomito, capace di sopportare il dolore. Eppure per sopravvivere il protagonista è costretto a estraniarsi, a non farsi permeare dalle immagini turpi e degradanti che lo circondano: sa, ma ignora, vede, ma non assorbe, per quanto questo sia possibile. Allo stesso tempo, però, per trovare la salvezza deve uscire dall’anonimato, resistere all’annientamento, essere qualcuno in mezzo a tanti nessuno. Anche se si svolgono pure all’interno del campo attività da “vivi” queste vengono ridotte tutte all’esito finale, di esse non resta altro che sofferenza, morte, cenere.

Solo l’assopimento della propria coscienza, il raggiungimento di uno stato semi letargico consente di affrontare la quotidianità. Si sopravvive mantenendo la distanza, evitando di penetrare i segreti del lager, gli anfratti più nascosti e torbidi per esorcizzare la paura. Eppure non ci può fare a meno di vivere la morte, di guardare dentro la morte.

La percezione, però, della fine della guerra, dell’avvicinarsi del secondo fronte, portano cambiamenti palpabili e si percepiscono i primi sprazzi di ribellione, scintille di vita, brevi lampi di bellezza, sottile ebrezza di libertà.

Il libro è anche dura un’accusa contro la condanna all’oblio per i sopravvissuti  alla tragedia (soprattutto tra i popoli slavi), che ha portato alla fuga dei reduci, l’eclissi, la ricerca del silenzio, della solitudine, l’impossibilità di dare il giusto rilievo al loro ruolo nella storia e, più in generale, è un’accusa contro l’ipocrisia e la pavidità delle classi politiche europee, contro la loro incapacità di operare una vera denazificazione.


Sergio Tavčar I PIONIERI
Ancora una storia di confine, ambientata in tempi più recenti e sicuramente meno drammatici (anche se di nuovo arriveranno accadimenti tragici). Una storia di periferia, quella di una piccola emittente radiotelevisiva, nata quasi per caso, a Capodistria, pochi chilometri da Trieste, ma in territorio jugoslavo. Siamo in pieno regime di Tito e TV Capodistria è un’emanazione della televisione di stato, la JRT, in particolare della sezione slovena. La Jugoslavia aveva, all’epoca, tre lingue ufficiali: il serbo/croato, lo sloveno e il macedone, ma cercava di dare spazio anche alle minoranze, come quella albanese in Kosovo (che finirà col divenire maggioranza, noi saremo sempre jugoslavi convinti, ma serbi mai e poi mai, dice a Sergio Tavčar  un collega di TV Pristina) e la neonata emittente ha proprio lo scopo di tramettere per la minoranza italiana, in lingua italiana. Questa piccola televisione tirata su con mezzi di fortuna, in una situazione quasi inverosimile, grazie a una serie di combinazioni e, soprattutto, alla caparbietà e all’entusiasmo di uno sparuto gruppo di giovani giornalisti e di un “manager” testardo e concreto, farà la storia della televisione, anticipando l’avvento delle tv private.

Ben presto TV Koper-Capodistria diventerà un punto di riferimento per tutti gli appassionati di sport, prima solo nel nord e su gran parte della costa adriatica, poi un po’ in tutta Italia, grazie agli accordi con una serie di emittenti locali, e affiora anche nei miei ricordi di bambino, come un qualcosa di esotico, tra Telecapri e Telenostra. I pionieri è un libro ironico, di un’ironia a volte tagliente (l’umanità è mediamente molto più imbecille di quanto possa attendersi il più cupo pessimista) piacevole, scritto con penna leggera, mai banale. Attraverso le sue pagine seguiamo Sergio Tavčar in tutte le sue avventure, tra gaffe memorabili e incontri indimenticabili, a volte in trasferte impossibili, in alberghi di terz’ordine e viviamo le sue telecronache, spesso, soprattutto agli inizi, in postazioni di fortuna. Ne seguiamo le peripezie legate alle difficoltà economiche, dovute all’essere “l’ultima” delle emittenti di un regime totalitario: prima i problemi legati al cambio (nessuno vuole i dinari), poi, con la caduta del regime, la spirale inflazionistica, che costringerà lo stesso autore a cercarsi un secondo lavoro. Partecipiamo ai più grandi eventi sportivi a cavallo tra gli anni ’70 e i ’90 (ma anche i primi 2000), a partire dalle Olimpiadi invernali di Sapporo (Giappone) del ’72: Olimpiadi estive e invernali, Europei e Mondiali di qualsiasi sport, su tutti il basket, ma ci appassioniamo anche a calcio, nuoto, sci (in tutte le sue declinazioni), persino hockey. Conosciamo da vicino sportivi, dirigenti, giornalisti, i cui nomi ci sono già familiari perché ormai divenuti famosi, icone nei loro rispettivi settori, ma qui agli inizi delle loro carriere (soprattutto i giornalisti, come Meda e Cerqueti).

Con Tavčar penetriamo nei meandri della televisione, scoprendo i meccanismi (tecnici e organizzativi) che ne regolano il fantastico mondo, dagli albori (quasi) alla modernità. E dall’interno viviamo anche l’evento che ha stravolto il mondo della televisione (e non solo) in Italia: l’avvento di Fininvest, la scalata di Berlusconi e la nascita del berlusconismo. Una storia di soldi, potere, arroganza, ma anche lungimiranza e visione strategica.

Pur mantenendo uno stile leggero, e sebbene il fulcro del racconto siano sempre le esperienze dell’autore nel mondo televisivo, con vista privilegiata sullo sport ai massimi livelli, il libro è anche uno spaccato della storia degli ultimi cinquant’anni e del Paese che, almeno in Europa, in questo periodo ha subito i maggiori  stravolgimenti, soprattutto negli anni ’90. La lettura dell’autore della crisi della federazione jugoslava è lucida e puntuale, anche perché il suo lavoro gli permette di cogliere i germi della disgregazione fin dai primi sintomi, dato che lo sport è uno specchio della società (già dalle Universiadi di Zagabria dell’87).

Se nel corso della lettura riusciamo a farci un quadro più chiaro, tracciato dall’interno, dei complicati equilibri su cui si fondava il regime e che permettevano una convivenza, mai semplice, ma tutto sommato pacifica, tra le diverse anime, e, al tempo stesso, degli asti, dei malcelati rancori che covavano sotto la cenere e che arriveranno a esplodere con un potere deflagrante senza pari in Europa negli ultimi anni, verso la fine gli accenni alla situazione politica acquistano sempre maggior rilevanza, procedendo di pari passo col precipitare degli eventi. Così riappaiono, nella Storia e nel racconto, l’orrore e la follia dei nazionalismi, del nazismo di ritorno (quello che, come dice Pahor, l’Europa non ha mai avuto il coraggio di estirpare completamente). E il cerchio non si chiude.

Fabio Sarno