Victus è romanzo di formazione, uno scritto storico, una vicenda picaresca; difficile da incasellare in una delle definizioni che normalmente la letteratura richiede per una comprensibile esigenza di catalogazione. Arduo comprimerlo in un’etichetta senza che la stessa risulti poi stargli troppo stretta.
Victus è stato caso editoriale in occasione della festa di San Jordi del 2013, quando in una manciata di giorni furono acquistate migliaia di copie, divenendo così il libro più venduto della manifestazione. Victus in totale ne ha vendute 250.000 di copie, tra il castigliano e il catalano. Victus è stato diffuso, tradotto in diciassette lingue perfino in coreano, pubblicato in ristampe continue.
Al Circolo dei lettori di Torino, Victus è il primo romanzo a essere analizzato in un interessante gruppo di lettura dal titolo, attuale più che mai, Spagna – Spagne, grazie a José Manuel Martín Morán, bravissimo docente di letteratura spagnola dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale, che ha disegnato un percorso per esplorare il tema dei nazionalismi iberici, la loro origine, i loro motivi storico-politici, attraverso un’accurata selezione di romanzi castigliani, catalani, galiziani, baschi.
Scritto avvedutamente in castigliano dall’antropologo africanista Albert Sánchez Piñol, oggi lo scrittore di lingua catalana più tradotto al mondo, Victus ci catapulta ai tempi della guerra di successione spagnola che porta all’estenuante assedio di Barcellona culminato nell’11 settembre 1714 e alla conseguente imposizione delle leggi della Corona di Castiglia.
La storia, sempre e prima di tutto. Carlo II di Spagna, ultimo regnante della casa d’Asburgo, nel 1700 morì senza lasciare eredi. Francia e Spagna, da un lato, e la grande Alleanza, che comprendeva Inghilterra, Austria, Olanda e Sacro Romano Impero, dall’altro, diedero vita ad una sanguinosa serie di battaglie che coinvolsero quasi tutta l’Europa di allora, nel tentativo di far salire sul trono i propri favoriti: Filippo D’Angiò i primi, il Granduca Carlo degli Asburgo d’Austria i secondi. La Spagna stessa è divisa internamente in due fazioni contrarie, la Castiglia appoggia Filippo di Borbone, la Catalogna invece l’Arciduca d’Austria. Questa frammentazione viene sentenziata in modo quasi profetico già da subito, quando il narratore arriva provocatoriamente a negare l’esistenza stessa della Spagna. “La Spagna non è esiste, non è un luogo, è una discordanza.”
L’evento storico è lo scenario nel quale hanno luogo le vicende del protagonista Martí Zuviría, ingegnere di guerra formatosi, per una serie di eventi fortuiti, presso la corte del marchese di Vauban, suo mentore. Un ormai novantenne Zuviría racconta le sue memorie alla pazientissima Waultrad, attuando il passaggio consequenziale da livello diegetico ad extra-diegetico. Da narratore dei fatti a “lettore” in chiave anacronistica degli stessi, riflettendo e giudicando gli accadimenti. Il dialogo continuo con Waltraud è funzionale proprio a questo, e la povera governante è incaricata di trascrivere sapientemente la storia raccontata dal protagonista-narratore, il quale non disdegna di riservarle appellativi poco edificanti per la necessità, forse, di esasperare il suo caratteraccio. Questo contribuisce a disegnare il suo profilo di eroe e anti-eroe insieme, a volte bieco, a volte così miseramente “umano”, a tratti finanche meschino, eppure capace di generare riflessioni che lasciano il lettore senza fiato. In un’atmosfera da trincea dove lo sporco e l’ombra dominano incontrastati, riesce ad infiltrarsi una luce che all’improvviso acceca, abbaglia per bellezza e saggezza. E una considerevole dose di lungimiranza.
Per Zuviría, che nell’incipit si autoaccusa di aver lavorato sia per una fazione che per l’altra, la guerra è solo freddo esercizio da ingegnere più che una questione di principio. Sembra demonizzare la guerra, non comprenderla fino in fondo, anche se è proprio lo spazio bellico il luogo semantico che definisce la sua formazione, le sue aspirazioni, i suoi bisogni. Nel suo incontro con Ballester, capobanda di un piccolo esercito di miquelets (banditi catalani che cercavano di scacciare l’esercito franco-spagnolo) per il quale la resistenza è una questione di vita o di morte, quest’aspetto opportunista della guerra vissuto da Zuviría diviene piuttosto evidente. Con tutte le implicazioni, anche positive, che questo comporta. L’autore non manca di sottolinearlo quando con l’assedio di Jativà la guerra entra in Catalogna e Ballester viene prima catturato e poi liberato dai suoi, passaggio che evidenzia il carattere militarmente irrazionale e pericoloso dei conflitti.
Allo stesso tempo il narratore però non si esime dal necessario compito di rivendicare le ragioni dei castigliani e dei catalani nelle loro rispettive prese di posizione. E lo fa, tra l’altro, in un accorato dialogo tra Zuviría e l’amico Diego Zuňiga, che danno voce alle due anime della Spagna, e battibeccandosi tuonano:
“L’impero…l’impero… Che cosa avete guadagnato con la conquista di un mondo? Gli indios vi odiano; i vicini europei neanche vi invidiano, vi disprezzano, e mantenere quella miriade di possedimenti oltremare ha svuotato le casse della Castiglia.” Martí.
“…Mi spiace non aver capito l’anima catalana. Spiegami tu i motivi di tanta insensatezza: perché volete distruggere un’unione d’armi che ci renderebbe potenti e rispettabili? Perché rifiutate un progetto comune che avrebbe dovuto unificare la Penisola già da secoli?” Diego.
Nello scenario fumoso e sudicio della guerra di trincea trovano spazio per esistere personaggi minori magistralmente tratteggiati: il nano e Anfán, due creature che si accompagnano nella sventura di essere venute al mondo nel posto e nel momento sbagliati. Grazie a loro riuscirà a manifestarsi l’aspetto più umano del protagonista, il quale prende con sé la strana coppia per formare, insieme alla prostituta Amelis, nella cattolicissima Spagna del 1700 un prototipo di famiglia à la page. “Sentii il respiro pesante di Anfán, osservai le smorfie di Nan, che sognava e le palpebre chiuse di Amelis, e mi dissi che quel letto, quel minuscolo rettangolo, era senza dubbio l’astro più prezioso di tutto il nostro universo.” Insieme ai tre si realizza e trova soddisfazione il bisogno di famiglia che alberga nel protagonista, come in ognuno di noi. “Chiamiamo un tetto casa quando non è altro che il suo ultimo involucro. Sotto il tetto c’è il fuoco e, in assenza del fuoco, il semplice e primordiale abbraccio.”
Alla fine del libro, una conclusione che personalmente ha richiamato il Macbeth, quando, appresa la morte di sua moglie, il barone di Glamis restituisce al saper collettivo uno dei monologhi più famosi di sempre: “La vita è come un’ombra che cammina, povero attore che si agita e pavoneggia la sua ora sul palco, e poi non ne sa più niente”.
Mi assumo la responsabilità di prendermi una licenza critica, chiamiamola così, e di accostare il sacro di Shakespeare al “profano” di Zuviría riportando una frase del suo epilogo, fatto di memorie e non scevro da una comprensibile nostalgia, con: “Siamo foglie secche che resistono. Stelle che esplodono, leggende dissipate. Verità senz’altra ricompensa che la lucidità.”
Angela Vecchione
E tu cosa ne pensi?