E poi la mamma, vedova e sola, diventa anziana…
Lei non più autosufficiente, i figli sono lontani, abbarbicati alle loro altre vite, e non reggono più il peso di dovere correre tutte le volte che la donna (o quello che ne rimane) cade. Così, in una Francia dove le strutture sanitarie si contraggono sempre più anche per la carenza di personale, si prospetta la soluzione della casa di riposo pubblica, purché, così impone la madre, non sia troppo lontana dai luoghi dove ha sempre vissuto. La donna viene inserita in una sorta di luogo di esilio dalle cui finestre si può ancora riconoscere paesaggi familiari ma scoprirà presto che non è tanto lo sguardo del fuori quanto del dentro a privarla della direzione e del senso della vita.
Quella che sarebbe dovuta diventare per lei una nuova casa, nonostante il suo: «No, questa non è casa mia» e i contemporanei inviti dei figli ad essere ragionevole perché non si può fare altrimenti, constatato il progressivo deperimento, diventano quattro mura estranee abitate dalla vertigine dell’angoscia e da un cambiamento radicale. Spesso siamo costretti ad abdicare davanti alla forza soverchiante delle cose e, al contempo, a definire, non certo senza ritrosia, quelle cose con il loro vero nome: la malattia si chiama vecchiaia; la casa di riposo non è altro che una prigione nella rinuncia ad avere il controllo della propria vita; l’impossibilità ad accogliere gli anziani malati nelle nostre case si rivela prima come timore di non saperle assistere e poi rimorso di essersi sottratti.
In questo asilo per adulti, ritornati bambini, ma senza più un futuro davanti (un periodo indefinito o pochi giorni) e con la difficoltà dei figli a comprendere perché le loro reazioni sono spesso in ritardo rispetto al deterioramento, non sempre visibile, dei genitori, si prospettano due reazioni opposte. Il contesto è quello di una «istituzione totale» dove le biografie individuali sono rubricate alla serialità: le une accanto all’altre, ma separate le une dalle altre, chiusa ciascuna in sé stessa.
Talvolta non si cede allo sconforto di un rallentamento cristallizzato di immobilità nella convinzione «che la mente voleva, il suo corpo avrebbe potuto», con la prima che si impone sul secondo, al prezzo di ripetuti sforzi. Talaltra, quando le specificità degli uni e degli altri vengono livellate ad un’uniformità generale, l’impossibilità a reinserirsi nella temporalità del tempo e l’accettazione di una vita diminuita conducono il degente alla ‘sindrome da scivolamento’, alla rinuncia a lottare e a dispiegare l’energia per sopravvivere dopo l’abbandono, così viene percepito, nella casa di riposo.
In questa seconda ‘’vita’’ un urlo di rivolta esce da un coro a bocca chiusa: «la sua rabbia trovava come unico destinatario la mia segreteria telefonica. Erano frasi dalla dimensione eminentemente politica… la denuncia di un’istituzione, di un sistema e dei loro effetti sulla vita delle persone come lei. Mia madre piangeva, ma non aveva accesso alla parola, quantomeno a quella pubblica». Perché nei cortei, quale che sia la manifestazione, bisogna sempre chiedersi chi manca. E gli anziani, non autosufficienti, non ci sono, non possiamo sentire la loro voce perché sono i grandi dimenticati e spetta a chi può ancora parlare farsi portavoce e cassa di risonanza delle loro istanze.
In queste pagine la morte della madre è il fatto che spartisce il tempo, come accade, per citarne alcuni, nei libri di Antonio Franchini, Annie Ernaux, Simone de Beavouir, Roland Barthes, ma è anche l’occasione per una biografia sociologica e politica dell’invecchiamento che è un problema per la società ed è il vero nodo di questo testo. A raccontarlo è un figlio che ha un chiaro intento: «Non voglio dipingere miniature, né ritratti edificanti. Voglio offrire un quadro della realtà».
Sua madre è stata una donna del popolo, ha fatto l’addetta alle pulizie e poi, insieme al marito, l’operaia, sfruttata, in una fabbrica, partecipando tuttavia attivamente alle lotte sindacali. È stata una moglie infelice che, sposatasi ancora adolescente, ha sempre manifestato un’ostile distanza nei confronti del coniuge che, rinnovandola, è diventata quotidianità, il loro modo di vivere, che non si sarebbe potuto cambiare negli Settanta pena il confino nella solitudine. Una donna che, una volta in prepensionamento, in compagnia di un televisore sempre acceso, è passata dal ‘noi operai’ al ‘noi francesi’ lasciandosi irretire dalle promesse dell’estrema destra. Così è diventata una vestale di un razzismo coltivato in soggiorno, che non ha indugiato a esprimere odio verso categorie diversamente stigmatizzate e inferiorizzate, che è l’elemento di cui si nutre quello pubblico.
La veemenza delle sue parole era, osserva il figlio, quella di un’eterna inferiore che ci concedeva, per mediazione di quell’odio, l’unico sentimento di superiorità a lei socialmente permesso. Con le sue parole si vendicava di essere stata da sempre dalla parte degli emarginati e la sua rabbia, anziché diretta alla società e alla politica, molto più responsabili della sua vita difficile, bersagliava altri, come gli stranieri, i troppi stranieri. Una donna inoltre che a ottant’anni si innamora di una persona più giovane e sposata e, in barba a certi conformismi e conservatorismi dei figli, si gode, prima del deperimento fisico, brevi anni di libertà dopo lunghe decadi di servitù familiare e sociale.
C’è poi un figlio che, come da lui raccontato in Ritorno a Reims, è fuggito da un ambiente rurale e dalle visioni ristrette, rompendo i legami con la famiglia, a parte qualche telefonata comandata ogni tanto, riparando a Parigi, nella città per eccellenza. Lì ha potuto studiare, frequentare circoli intellettuali, dirsi pienamente sé stesso e vivere con maggiore serenità la propria omosessualità. Ma, quando la madre muore, è costretto a riprendersi la propria identità di figlio, e per quanto poco abbia cercato di farlo, si accorge di non avere mai smesso di esserlo. Da qui l’esigenza di ricordare la madre e il loro rapporto affidando alla scrittura il compito di tenere in vita quella donna e di scandagliare le reciproche responsabilità, mancanze ed errori con lo focale volutamente corta.
Inoltre, come sottolinea Pierre Bourdieu per quanto si siano prese le distanze dalla famiglia, c’è una sorta di movimento centrifugo e centripeto nei confronti dei genitori come corpo e come campo a cui difficilmente ci si sottrae. A questo si aggiunge un potere di ricatto nei confronti dei figli che si sono allontanati fisicamente o socialmente. Non è un caso che quando la madre di questo libro parla con il figlio, nel frattempo diventato un altro da sé, quasi per dispetto, quasi come monito, come a dire: ricordati da dove provieni, non rinunci alla parlata della Champagne, con la sua intonazione, accento, regionalismi, modi di dire. Un lessico non conforme, certo, alle regole del «buon francese», con il quale ora il figlio, ai suoi occhi: transfuga di classe, si esprime, ma è la traccia vivente per chi ascolta e capisce quel dialetto di un passato che gli appartiene.
In Vita, vecchiaia e morte di una donna del popolo, pubblicato da L’Orma editore nella traduzione limpida e attenta ai ‘passati’ di Annalisa Romani, Didier Eribon attua, partendo dalla sua storia personale, un’analisi lucida, acuminata e dolorosa, di cosa significhi oggi essere anziani (e figli di questi) in una società che per loro non ha spazio e trama la congiura del silenzio. Un biografia che segue le tappe, anche negli inciampi, di una donna del popolo che non c’è più e di una madre nei confronti della quale, benché recisi i legami, si resta sempre figli. Una radiografia senza sconti che rivela una sanità come una cittadella in rovina. Un libro, ricco di rifrazioni e collegamenti con autori fondativi per Eribon, che una volta chiuso, ci fa domandare: e quando diventeremo vecchi noi?
Claudio Musso
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