Ma cosa scappi, dove?
Volevo solo dirti
che indossi troppo fard
questa mattina,
che quella grinta nerofumo
è un po’ consunta
sui risvolti…
E non vantarti, prego,
se all’apparenza è stato eroico
schivare il giovanotto in curva
che chiedeva udienza
Cortese segnalavo ad accostare
che hai perso un tacco
e vai tutta sbilenca

Quattro e cinquantotto
nella radiosveglia
mentre balzando stacca, fuori,
il primo canto dal fondale
della notte estinta
E tu qui a fianco sospirando
ritorni da un non so…
ma intanto il sole incendia
quelle che adesso muove
come un’orchestra intera

C’è questo odore dominante, nelle poesie di Guido Leotta (Leviatamo (1979-1999), Mobydick 1999, pp. 48, L. 14.000, nel 2000 ndr), di sogno in sordina, ad ali ripiegate. Il verso potrebbe decollare, certo, si sa quali sono gli ormeggi da sgravare, ma solo alcuni vengono sfiorati da mani mai prive di ironia leggera e a volte di amarezza più spessa, mentre agli altri si accenna… Il punto è che salire non sempre vuol dire andare in alto. Sulla realtà è una specie di calcare, ma anche l’immaginazione si guardi bene dal pensarsi salva. Questo l’invito del Leviatamo, che con una voce come un’unghia affilata ed esatta gratta via – ancora prima di vederlo irrimediabilmente depositato – quel nonsoché di patina luminescente che potrebbe renderci tutto, vissuti-sentimenti-visioni, un po’ più caro allo sguardo. Al contrario, le poesie di Leotta non possono che scoprire trame malamente intrecciate dietro stoffe sdrucite (Leviatamo esordisce infatti con: Perdona se / quando sorrido / si vedrà il rammendo.) Gli occhi sono rimmelcerchiati, fard e fondotinta rendono i lineamenti impenetrabili, e le bocche giacciono zitte e senza allegria, schiacciate dai rossetti. Amori sbalzati fuori dal centro si fermano immobili a guardare la curiosità perdere quota in distanza. Qualche tacco a spillo, credendo volteggiare arioso, è ripreso mentre incespica fra i sassi, nemmeno troppo nascosti. Lungo le strade, dentro casa. Sulle labbra. In questo territorio dell’inconcluso cantare significa interrompere i sogni prima che cadano, far squillare il driin driin della sveglia in netto anticipo sui mancati appuntamenti. Non far volare troppo il verso, che poi, dopo lo stacco del salto, sarà l’altezza stessa ad abbatterlo lassù nell’aria rarefatta. La parola, del resto, non compensa e non aspetta: spezza la sua riga, ordisce un silenzio, accenna o forse invoca un’altra storia. Che un giorno, per una volta, si possa atterrare di là da questo fittissimo tendone d’ombra.

E se anche una caduta sempre ci consuma, ancora prima di lasciarci credere nell’attracco di una gioia che dondola sull’acqua, resta comunque il vedere. Perché se anche i cieli a immensa tensione sono attraversati da venti violenti, fuori c’è il sole, forse più di uno, che incendiano di luce. Diventano visibili a guardarli leggermente di sbieco, senza uscire dal dentro e nemmeno allontanandosi più di tanto. È un altrove senza nome, o meglio, stando alla melodia dell’arpista citata da Leotta, trattasi di quella terra che ama il silenzio. È perciò che bisogna fare la parola abbastanza leggera
perché conduca fin là – velocissima, lemme lemme. La si scrosti, dunque, la si sgrani, la si spacchi.

Monica Pavani

Guido Leotta è nato a Faenza nel 1957 e prematuramente scomparso nel febbraio 2014. È stato editore (la sua casa editrice si chiamava Mobydick), scrittore, musicista. Ha pubblicato raccolte di racconti (Passo narrabile del 1997 e Il silenzio del trombone nel 2003), narrativa per ragazzi (Doppio diesis, Edizioni EL, 2000), numerosi libri-cd, nonché un paio di romanzi a quattro mani con Giampiero Rigosi e Franco Foschi. Suonava sax e flauto nei Faxtet, quintetto di blues-jazz col quale aveva inciso numerosi dischi. Ha musicato spettacoli teatrali con Ivano Marescotti, Giovanni Nadiani e Ferruccio Filippazzi, tra gli altri.