Ho ceduto alle sirene di Dicker.

Nonostante abbia spesso trovato, nei suoi romanzi precedenti, motivi di critica, è anche vero che l’impressione lasciata dalle sue pagine è sempre stata quella di un gran divertimento. 

Così, via alla lettura!

Andamento iniziale lento: la storia della Camera 622 è inframmezzata dalle vicende dello scrittore protagonista (Joël come l’autore); e spesso partono intermezzi di omaggio e rimpianto per l’editore (vero) del (vero) Joël, che si chiamava de Fallois (morto nel 2018).

C’è una commossa dedica iniziale e alcuni gustosi aneddoti, ma le parti agiografiche sono poco interessanti. Non sto gettando via tutto il dolore che, è evidente, l’autore ha provato, anzi, ammiro la capacità di Dicker di filtrare le emozioni provate attribuendole al suo alter ego. Tuttavia, mi è venuto da dire: basta, grand’uomo, eccezionale, buono, ho capito, adesso continuiamo. 

Per il resto, una cinquantina di capitoli inquadrano L’Enigma della Camera 622, con continui salti temporali, ricerche e interviste ai personaggi legati ai fatti, e una storia costruita un pezzetto alla volta dai frammentari ricordi dei protagonisti, che lo scrittore-personaggio rimette insieme. Se poi lo scrittore protagonista del romanzo fa quello che lo scrittore reale ha fatto realizzando il libro, non è altro che uno dei molti giochi di specchi che, se fossi colta, chiamerei una continua, divertente, ben fatta mise en abyme.

E, dal capitolo 52, incominciano i fuochi artificiali.

Le rivelazioni si susseguono alle sorprese, e Dicker fa qui una cosa che gli è sempre riuscita bene: tiene in mano decine di redini e le manovra con maestria, per farci andare dove vuole lui, finché, convinti di aver capito tutto, scopriamo che non è così, e che le cose sono ancora diverse, le persone sono diverse, la storia non è quella che ci è apparsa fino a quel momento ma ha una diversa angolazione e così via e così via. E pazienza se, a un certo punto, il disvelamento di tutto ciò che c’è sotto all’intreccio pare un po’ forzato, non del tutto credibile: nello slancia di lettura uno se lo dimentica.

È chiaro che, con un libro così, anche qualche svista non fa altro che aggiungere divertimento. Faccio un semplice, ridotto elenco:

– c’è una pediatra “di madre inglese e padre avvocato”, così che ti chiedi se avvocato sia diventato una nazionalità o inglese un lavoro; 

– ci sono conversazioni così improbabili che mi fanno ridere e perle come: “Il posto era deserto. Chiamò: nessuna risposta. Evidentemente suo padre non era lì”. Oh, really?

– ci sono, ahimè, dolenti note per le quali mi piacerebbe leggere il testo in originale: primo, qualche congiuntivo perso nei meandri dell’intreccio; secondo, punti interrogativi come se piovesse, ad esempio: “Ho sentito che sta facendo un tirocinio a Ginevra?”, al che mi verrebbe da rispondere: non so, lo ha sentito?

Ma, visto che si parla di scrittura, giusto anche sottolineare la capacità di Dicker di utilizzare, oltre a una trama complessa e a due linee temporali diverse per svilupparla, situazioni e linguaggio che hanno un profumo piacevole di antico, di drammone.

Provate a leggere: “Ricordo la torrida giornata di fine luglio in cui tutto ebbe inizio”, e già sentite la voce di un attorone che vi porta nella Parigi soffocante dove si svolgono gli avvenimenti. “I sensi all’erta, sentivano crescere l’eccitazione nell’attesa dell’incontro”, o “viveva in una casa in riva al mare, dove tubava con sua moglie”, sono altri due esempi di questo profumo di retrò. Piace? Non piace? È comunque cosa che l’autore ha scelto di utilizzare e che sa fare con sicurezza invidiabile.

Annalisa Ferrari