La classe avversa, primo romanzo di Alberto Albertini, è costruito intorno a due poli: l’azienda e la letteratura. Questi due temi si palesano fin dall’incipit, in cui il protagonista, seduto alla scrivania del proprio ufficio, pensa a Leopardi. Incapace di ribellarsi al volere paterno, che dopo il diploma lo ha voluto come dipendente nell’azienda di famiglia, il protagonista ha per anni sognato di frequentare la facoltà di Lettere: il romanzo narra un momento della sua vita in cui l’azienda famigliare, dopo l’ingresso di un socio di maggioranza, si sta ristrutturando, ed egli sta per conseguire di nascosto la tanto attesa laurea.

Il romanzo intesse dichiaratamente un dialogo con Tempi stretti di Ottiero Ottieri, che compare più volte nel corso della narrazione con la funzione di guidare i pensieri del protagonista, di aiutarlo a interpretare la propria condizione. Ma i riferimenti letterari di Albertini – e, di conseguenza, del protagonista – sono ben più ampi, e due in particolare aiutano nell’interpretazione del romanzo. Il primo è il riferimento a Boccaccio, che «rovesciò il suo destino: il padre lo manda a Napoli a studiare le tecniche commerciali di “mercatura”. Ma Cino da Pistoia […] lo inizia alla poesia cortese e stilnovista» (p. 148). Il secondo è a una lettera scritta da Leopardi al padre, in cui chiedeva «ciò che tutti i figli vogliono dai genitori: i mezzi indispensabili perché un giovane, pur nelle mediocri speranze, possa riuscire, possa almeno provarci» (p. 270).

Il divieto paterno alla possibilità di intraprendere gli studi universitari («Lettere? Cioè vorresti fare il barbone a vita», p. 33), unito all’incapacità del genitore di mostrare apprezzamento per il lavoro dei suoi dipendenti (e quindi anche del figlio) («Quante volte ho sentito mio padre dire: “Non gli dico bravo altrimenti si monta la testa”», p. 157), costituiscono il trauma da cui scaturisce la continua ricerca di conferme da parte del protagonista, in diversi aspetti della propria vita: lavorativo, universitario e amoroso. In tutti e tre gli ambiti, infatti, il protagonista sente il bisogno di dimostrare la propria capacità, di ostentare la propria bravura: prima di licenziarsi vuole portare a termine la commissione più importante della propria vita; chiede come tesi di laurea «la più difficile che si possa concepire» (p. 243); sente il bisogno di riaffermarsi dal punto di vista sessuale, che sia con la moglie o con l’amante.

Grazie alle sue conoscenze letterarie, Albertini si inserisce all’interno della narrativa del lavoro contemporanea con un contributo interessante, utilizzando il punto di vista della classe imprenditoriale (e, nello specifico, dell’imprenditoria familiare), classe che – oltre a essere antagonista a quella operaia – può rivelarsi avversa anche a sé stessa. E, ritornando alla figura del padre (il romanzo è proprio dedicato al padre dell’autore), è nel suo motto «famiglia povera, azienda ricca» (p. 100) che sembra celarsi la logica capitalista della crescita fine a sé stessa, e ivi si nasconde quello che Volponi ha definito «il dramma dell’uomo perduto, schiacciato sotto le cose che ha costruito e accumulato per una soddisfazione egoistica che è poi quella del capitale sul capitale».

Enrico Bormida