Anno 1 | Numero 4 | Dicembre 1997

Vivevamo su Point Dume, una lingua di terra che si spingeva nel mare come una tetta in un film porno.

Siamo nel capitolo I, nella prima pagina, nel primo dei due racconti lunghi che compongono A Ovest di Roma (Fazi, 1997) di John Fante.

Siamo all’inizio della storia Il mio cane stupido, ci troviamo in California, e stiamo per entrare in una villetta a forma di ipsilon dove uno scrittore di sceneggiature per Hollywood, sua moglie e quattro figli vivono. Leggere questo libro, per chi conosce John Fante, è come andare a trovare una persona che hai incontrato da bambino: era un bambino di 10 anni, figlio di immigrati italiani, e viveva in Colorado, lo mandavano a scuola dai gesuiti e gli americani, con disprezzo, lo chiamavano Dago (Dago Red, 1940, Marcos y Marcos). Erano gli anni trenta.

Poi divenne un ragazzino con un braccio incredibile, un braccio nato per il baseball, per andare a giocare con i migliori, per riscattarsi dalle sue origini e diventare l’idolo della folla americana. In seguito si scoprì scrittore e andò in cerca di fortuna, sulla strada per Los Angeles, con sogni di vita italo americana da raccontare, partì da Bunker Hill e approdò a Hollywood. Lì lo fecero sceneggiatore: scrisse i personaggi, li fece camminare, riscrisse, li fece morire, e finalmente andò a vedere il film, e non trovò niente delle sue righe, niente di niente, ma lo continuarono a pagare, per scrivere e poi distruggere ciò che scriveva.

Questa è Hollywood, signori.

Dalla polvere delle strade il bambino che ragiona sul catechismo, (Aspetta primavera, Bandini, 1938, Marcos y Marcos 1983), il ragazzino dal braccio magico, lo scrittore che si innamora dei personaggi secondari, e terziari (Chiedi alla polvere), l’italo americano che non voleva fare il muratore, come il padre che lo accompagna nell’ultima eroica resistenza alla vecchiaia (La confraternita del Chianti), diventa un signore cinquantenne, ed è in questa cornice californiana che, chi lo conosce e chi no, lo ripesca, proprio su quella lingua di terra che sembra una tetta in un film porno.

Ehi, John, come va, come stai? E i tuoi? E la famiglia? Tua moglie? I figli? E senti sei più andato a Roma? Lui esce fuori da questa villetta a forma di ipsilon e ti dice Ho trovato un cane enorme, razza akita, testardo, irrimediabilmente frocio, e l’ho chiamato Stupido. Così, John Fante direbbe così, e poi, sottovoce, quasi rammaricandosi di doverlo ammettere, aggiungerebbe No, a Roma non sono più andato, sai, la moglie, i figli, e poi il lavoro… Ma la moglie che ha resistito venticinque accanto a me che non ha una tradizione da rispettare, non lo seguirebbe mai a Roma, lei che scaturisce da un ceppo inglese e tedesco arrivato in California dal New Hampshire e dalla Germania. E i figli, beh, i figli ognuno dei quali, o tutti e quattro, avrei senza rimpianti scambiato per una Porsche sarebbero troppo occupati a frodare il servizio militare, ad accoppiarsi con donne di colore che li picchiano, a fumare erba, a scappare di casa uno a uno, a disprezzarlo per poterlo accompagnare in quella fuga che è la culla dove starebbe bene solo lui, tra i tavolini italiani, il sole, la Chiesa, le donne e l’Italia da ritrovare.

E poi il lavoro, quella che era un’oasi di lotta individuale, la forza sovrannaturale di John Fante di costringere in un foglio bianco una tempesta ormonale (Veronesi n.d.r.), una sfida alle emozioni, una mappa di strade calpestate in cerca di lavoro, di bar frequentati in cerca d’amore, di incontri consumati per vedere se c’era qualcuno, a Hollywood, in America, o da quelle parti, che avesse voglia di leggere qualcosa senza la data di scadenza, tutto il lavoro che poteva salvare John Fante, come suo padre, si riduce a un romanzo che i figli giudicano terribile, o a sceneggiature che l’autore non sa riconoscere, venticinque anni fa avrei afferrato quella massa di pagine con le mie due mani e l’avrei coraggiosamente fatta a brandelli.

E così, in quella villetta dove sembra che tutto sia in ordine, incontri John Fante tutto ripiegato su se stesso, ancora cinico, ancora iracondo e sempre coraggiosamente vivo, ma un po’ rannicchiato, come in cerca di energia, la sua energia e il suo amore per le cose, le sue esagerazioni, come la libertà di difendere un cane stupido e frocio contro tutta la famiglia, perché rimane l’unico in grado di capirlo e di amarlo Alle volte quando ero seduto e lui si alzava, mi metteva le zampe sulle spalle e cercava di scoparmi. Mi amava. Come altro avrebbe potuto esprimerlo? Con una poesia, con delle rose?

Il mio cane Stupido è una storia che ti sorprende, ti coinvolge e finisce anche per metterti in imbarazzo. Alla fine rimani lì, sempre sulla porta di casa della villetta-ipsilon, è notte, e ti ritrovi a prendere John Fante tra le braccia, a dirgli, senza saper molto cosa dire: “E dai John, non fare così, a Roma ci andremo, vedrai, si fa un bel viaggio tutti assieme, portiamo pure il tuo cane Stupido, ok?” Ma sarebbe invece da dirgli: grazie, John, grazie di tutto.

Paola Mordiglia

 

“John Fante è il narratore più maledetto d’America.”

Charles Bukowski

In libreria nel 1997

Una moglie per Dino Rossi Sellerio 1988, L. 10.000

Chiedi alla polvere Marcos y Marcos 1994, L. 20.000, Einaudi 2016

Aspetta primavera, Bandini Marcos y Marcos 1995, L. 22.000, Einaudi 2005

La confraternita del Chianti Marcos y Marcos 1995, L. 22.000

Un anno terribile Fazi 1996, L. 24.000, Einaudi 2008

I sogni di Bunker Hill Marcos y Marcos 1996, L. 22.000, Einaudi 2004

La strada per Los Angeles Marcos y Marcos 1996, L. 22.000, Einaudi 2005

Dago red Marcos y Marcos 1997, L. 22.000, Einaudi 2006

A ovest di Roma Fazi 1997, L. 24.000, Einaudi 2008

Non c’era da meravigliarsi che io comprendessi i miei cani e non i miei figli.

Non c’era da meravigliarsi che non riuscivo più a finire un romanzo.

Per scrivere bisogna amare e per amare bisogna capire.

Per saperne di più su John Fante, leggete qui