Questo breve romanzo è il primo libro di Laura De Palma. L’io narrante si chiama Chiara, studia Lettere a Pisa e ha difficoltà con la filologia germanica e i «verbi forti». In un autunno inoltrato e pesto comincia ad accudire, tutte le notti dispari, il signor Ettore, vecchio e ammalato: «era un pezzo di legno con la corteccia molle, che sapeva di larva e di vermi». Dei suoi mali vediamo solo i segni concreti: dolori, lamenti interminabili, diarree. Per questa ragione il libro, che pure è ambientato qui e ora, sembra un racconto d’altri tempi: nelle sue pagine si continua a nascere e morire in casa propria; non per niente agli occhi di Chiara le sedie d’ospedale sono «asettiche e prive di compassione».
La qualità più sbalorditiva di Laura De Palma è il tono, lo sguardo: che è innocente ma duro e non ignora il male, conosce e sa dire la concretezza del dolore. Chiara scopre le miserie del corpo e ne parla con pudore e crudezza: «La pelle di fuori era tutta blanda e si staccava dalle ossa, dagli sterpi sotto le coperte».
La morte, grande rimossa, ci viene restituita come presenza quotidiana, e appena un velo sottile la separa dalla vita.
Le prime notti con don Ettore, in una stanza dove i mobili «sembravano bare dimenticate a casaccio», sono difficili. Poi, a forza di condividere le «bassezze» del corpo, Chiara si arrende alla sua sofferenza e comincia a volergli bene. E prende a raccontargli la sua vita, la sua famiglia, i suoi esami e i suoi amori andati a male: una psicoanalisi notturna, elementare e disordinata, che dura da un dicembre a un maggio. Una psicoanalisi capovolta: sdraiato sul lettino c’è un vecchio che ascolta e non parla mai. Raccontarsi sarà insieme la diagnosi e la terapia di Chiara, la quale sembra suggerirci che il guarire non consiste nel separarsi dai propri mali (illuso chi lo crede), ma nel riassorbirli e fonderli dentro la propria persona, nel fargli nido nella mente e nel corpo.
Affidato al pendolo dei racconti di Chiara, il romanzo comincia a spostarsi avanti e indietro nel tempo e nello spazio, percorrendo l’Italia su e giù. Il perno, naturalmente, è Pisa: l’università, il lungarno, qualche stradina piovosa e un Campo dei Miracoli fresco e ben poco monumentale. In basso c’è una Salerno fatta di sabbia, di palme e di pannocchie bollite in vendita sul lungomare; qui Chiara ha passato l’infanzia e qui vive la sua famiglia. Da Salerno si guarda e si tocca la Costiera Amalfitana cara a suo padre ed estranea a sua madre: è il Golfo Paradiso del titolo. In alto c’è Pavia, sede di un passato remoto e sconosciuto: è la città di sua madre. Sono questi tre luoghi a mettere in moto ogni cosa: la lingua di Chiara – il suo «italiano di nessun posto» – e la folla dei personaggi.
Tra questa folla svetta la madre di Chiara, «un’isola lombarda nel Meridione, una roccaforte pavese inespugnabile». Il romanzo racconta la «storia mancata» di Chiara con sua madre, la quale per sconfiggere il silenzio famigliare si affida a una radio «piccoletta e nerina» che «faceva pensare a quei bastardi che vagano a zonzo per le strade». Con la sua cronaca di un dialogo figlia-madre fondato sulle cose non dette, Laura De Palma raggiunge un altro risultato insolito: riesce a parlare dei sentimenti mostrandoli in piena luce ma conservandone intatti la delicatezza e il pudore.
La lezione di stile che Laura De Palma sembra aver appreso con più profitto è quella di Natalia Ginzburg. Il suo è un «lessico famigliare» in cui, a differenza dell’originale, la voce narrante avanza fino al proscenio, con una sincerità e un’autoironia disarmanti ma non disarmate: «Sembravo una palla di biliardo con qualche setola sparsa, e non mi trovavo affatto femminile. [ … ] Però le bambole le sceglievo tutte coi capelli lunghi e cucivo loro gonne bruttissime. [ … ] avevo begli occhi verdi spauriti dal mondo, e quelli mi sono rimasti finora, verdi e spauriti dal mondo». Ma questa scrittrice è anche tra i felici pochi che ancora si divertono con le parole, che non se ne lasciano ossessionare. Il suo tratto più personale è la comicità che promana da singole parti del corpo – ciuffi di capelli, sederi, mani: soprattutto mani. In questo libro le membra del corpo vivono di una vita propria e indipendente, sono esseri repentini e dispettosi, che non stanno fermi mai. La De Palma possiede anche l’arte degli a capo, che da una riga all’altra precipitano il lettore dal divertimento alla commozione, e delle immagini che colpiscono a tradimento: una scrittura fluente ma tutta controtempi con metafore che sgusciano e inchiodano inaspettate, e tessiture di suoni che si spezzano in un inciampo, in una pigna di due o tre note semistonate lasciate cadere di sbieco.
Io credo che Laura De Palma possegga un talento naturale limpidissimo, malgrado i difetti di questo libro d’esordio, come l’autobiografismo troppo scoperto e la mancanza di una struttura romanzesca «forte»: chi legge vede affiorare sulla pagina solo il riverbero emotivo dei luoghi e dei ricordi, la risonanza interiore di singoli episodi staccati. Il disegno d’assieme si riduce a una linea cronologica, da un autunno a una primavera. Perciò, in attesa di un secondo libro, resta solo da fare gli auguri a questa scrittrice esordiente che ha trent’anni, vive a Milano e fa la traduttrice. C’è una poesia di Patrizia Cavalli che sembra il suo ritratto, una poesia di quattro versi: «Se di me non parlo / e non mi ascolto / mi succede poi / che mi confondo».
Domenico Scarpa
«La mia non è proprio la storia di un rapporto tra madre e figlia. È forse la storia dell’assenza e della continua ricerca di questo rapporto. Dei vuoti che rimangono e si riempiono un po’ di tutto.»
In libreria
Laura De Palma
Il Golfo Paradiso
Positive Press, 1997
Collana: Le nostre storie
100 p., brossura
€ 10,33
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