Ottanta rose mezz’ora è un libro sorprendentemente commovente. E Dio solo da quanto abbiamo bisogno di libri sorprendentemente commoventi in Italia.

Sto parlando, nello specifico, di una storia d’amore tra uno scrittore e una puttana.

Sì, beh, urge correzione.

Sto parlando, nello specifico, di una storia d’amore tra “una normalissima ragazza italiana con i capelli neri e le fossette in fondo alla schiena” e uno scrittore mediocre, uno “scribacchino di fascia medio-bassa” con una parlantina affidabile, sfiancato dall’esordio e dai fallimenti, un trentaseienne con due facce: quella fulgida da scrittore romantico e quella di tutti i giorni “spenta e superficiale”.

In ogni caso un uomo con una “fasulla vita di merda”.

Comunque, una comune storia d’amore.

Si incontrano in una vecchia fabbrica abbandonata, “uno di quei posti che le pubbliche amministrazioni sono ben liete di ristrutturare per esiliarci le attività culturali”. E infatti lui ci va per indossare la faccia da ironico letterato, e per esiliarsi.

Lei ha appena aperto un mutuo per rilevare un open space in cui allogare la sua tanto bramata scuola di danza.

Si incontrano e si mescolano, subito, di notte, contro una saracinesca.

Poi, forse, si innamorano.

Sorvoliamo i riferimenti risibili a Whatsapp, alle spunte blu, alle icone rosse, ai messaggini, alle chat, insomma a tutti quei magnifici elementi che non vorremmo incontrare nelle opere di un autore dall’incipit così violentemente sensibile. Ugualmente lasciamo fuori da questo articolo, i post scriptum da nerd sfigato che si divide la storia con il timido autore brillante.

Apprezziamo invece le atmosfere alla Undici minuti di Paolo Coelho, solo meno arzigogolate, più sempliciotte. Più italiane.

E quindi, dicevo. Forse si innamorano.

E infine, forse, sempre forse, si amano anche.

O ci provano. In modo del tutto storto, sbilenco.

Lui va e viene, e lei aspetta.

Lei cucina malissimo, in casa è un disastro e lui si bea.

Lei cerca di non inciampare nelle macerie del suo passato, lui cerca di non inciampare nelle sue ispirazioni naufragate.

Poi, a un certo punto, la svolta.

Ebbene, non avevo capito niente.

Non avevo capito che quello dai gusti strambi, dalle inclinazioni sessuali particolari, fosse lui, il cultore delle belle lettere, e che lei, vagabonda forse inconsapevole, forse solo abituata ai fallimenti e alle mancanze, fosse quella dritta, quella saggia.

Bravo, Cristiano Cavina! Ci porti per mano sulle vette dolcissime di una bella e noiosa storia d’amore e poi a un tratto ci butti giù dal precipizio, facendoci rotolare in mezzo alle foglie bagnate dell’erotismo, fino alla valle della perdizione totale.

Insomma, a lui, allo scrittore mediocre, piace guardare.

Cosa?

Video, foto, fantasie di uomini e donne in calore, bramosi di carne tenera, colmi di umori che lasciano sul pavimento, e ama guardare Sammi, Sammi, il suo amore, Sammi con un altro, o con un’altra davanti a lui con i pantaloni abbassati fino alle caviglie, o con l’occhio affilato nel pertugio di una tapparella. A metà strada tra “la purezza e lo schifo.” Un racconto osceno ed eccitante.

Da cui Sammi prende spunto quando perde tutto e si ritrova a dover pagare le rate del mutuo per non rinunciare alla sua amata scuola.

Riceve nel suo appartamento. Centocinquanta euro per un’ora. Ottanta euro mezz’ora.

Lui resta acquattato sul terrazzo a far quello che gli piace di più. Guardare. Fantasticare.

Sarà questa la vera e unica faccia del protagonista? Dobbiamo ringraziare Sammi, ballerina di danza classica con le fossette in fondo alla schiena, per avercela svelata alla novantacinquesima pagina?

Eppure, alla fine delle quasi duecento pagine di questo libro ben fatto e ben scritto, di nuovo una brusca sterzata.

La ballerina vuole cambiare tutto, vuole scompaginare la routine da prostituta, per amore di un piccolo germoglio che nasconde e che la rende felice. Ma non ci riesce.

Torna a casa col vestito macchiato.

E anche stavolta, lui resta a guardare.

È Sammi la protagonista. È Sammi l’eroe di questo romanzo. È la puttana la vera principessa.

Una giovane ragazza italiana, abbandonata da tutti ma mai da se stessa, con un sogno incorruttibile che è quello di insegnare la danza, una ragazza passata attraverso mancanze, delusioni, disamore e violenza. Una ragazza che non conosce la vergogna pur avendo fatto cose vergognose. Una ragazza che supera le intemperie, i guai e le sconfitte. E sopporta questo nostro scrittore malconcio e sghembo, tutto aggrovigliato nel disastro dei suoi compartimenti stagni interiori, alcuni ironici, alcuni scabrosi, alcuni troppi stagni, troppo sigillati per poterci sbirciare dentro.

Masturbarsi non è affatto male, ma a cosa serve la meraviglia se si è completamente soli?” Dice quando decide di abbandonarsi a questa specie di amore in attesa del suo frutto.

Fine della favola?

No.

Perché “le favole finiscono sempre con l’eroe e la principessa che finalmente possono fare l’amore”. E invece loro lo hanno fatto, anche troppo, fin dall’inizio. E poi questa non è una favola. Le favole non parlando di puttane e di pervertiti. E qui non c’è un principe. Ma solo una principessa che prendeva ottanta rose mezz’ora, e che è stata lasciata scivolare via dalle pagine da uno scrittore che non aveva il coraggio di inventarsi l’ultima storia.

Viola Scotto di Santolo