“I vortici si addensano, sempre più fitti.
Sta per nevicare.
Il castello morto guarda la valle. Intorno si staglia, livido, l’Appennino.
Tra San Nicola e Somma c’è una lunga fossa nera. Lì, in estate, è tutto grano e papaveri; ora pare non ci sia nulla, al fondo della buca. Sterpaglie, qualche airone che scende nel letto del fiume. Sopra, tra i canneti, un ponte romano.
La neve sta coprendo ogni cosa. Quest’anno è arrivata in ritardo.”
Sono la neve e l’immobilità di certe provincie e lo schema delle ricadute a fare da sfondo alla vicenda scritta da Maria Consiglia Alvino nel suo A volte la neve, romanzo d’esordio edito dai tipi di Re(a)daction. Protagonista di questa storia è Chiara e con lei Rocco e Luca, nati e cresciuti in un paese dell’entroterra campano, svezzati nelle metropoli europee, al riparo dalle proprie paure, forti delle identità delineatesi in spazi urbani plurali e accoglienti, così lontani, quando non diametralmente opposti, all’agora nella quale hanno mosso i primi consapevoli passi.
La scrittura della Alvino è un tocco di grazia che ritrae un’umanità senza tempo dove il cadere incessante della neve attutisce i rumori, le grida e le risate. Tutto congelato nella stasi collettiva dei ritorni di cui questo paese è colmo, di un’Italia che viaggia a senso unico nel momento sacrale dei natali e delle pasque che si traducono tutti nel verbo unico del ricongiungersi. Gli uni agli altri, gli uni per gli altri.
Potrebbe trattarsi di un’altra terra, di altri ritorni quelli che dopo le vacanze ci si porta dentro nella forma mitigata degli echi, dove gli incontri col passato sono lì puntuali ad attenderci, tra i sapori dei cibi ritrovati e la biancheria profumata dalle mani sapienti delle madri nell’attesa di stendere quelle lenzuola. Far rivivere le stanze mineralizzate dell’infanzia. Ma sono quelli di un territorio definito e nebuloso al tempo stesso.
Alvino ci restituisce le immagini che si vivono a certe latitudini attraverso una prosa poetica.
Ritrae il paese come “un mondo aggrappato come in uno sgangherato presepe”.
L’autrice, irpina come i giovani che descrive, anche lei da ragazza nella grande e plurale Europa per un dottorato in filologia prima a Strasburgo e poi a Parigi, pare riservare alla sua terra uno sguardo di sorellanza, senza rimpianti e senza sconti. La vicinanza emotiva che accomuna altri irpini, da Capossela ad Arminio, nelle cui riflessioni si scandagliano la condizione di alienazione e la voglia di conforto, la perdita e la consolazione.
“Colline e case basse dai tetti spioventi, in fondo la montagna, con il suo profilo a tridente, tutta azzurra, e in cime il santuario bianco che guarda la valle. Ecco l’Irpinia. E poi, sempre più su, i paesi innevati e scomposti, e infine il suo, con la rocca scura abbarbicata tra le nuvole e il niente.”
Scenari nei quali questa gioventù liquida e incerta cerca di definirsi, di perdonarsi e amarsi.
Angela Vecchione
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