Il rapporto tra un padre e un figlio, l’eterno confronto maschile che passa attraverso l’amore e la disapprovazione e la rivalità e la diversa visione delle cose. Cosa si prova quando a venti o trent’anni stai per dire addio all’uomo che su di te ha misurato aspettative, immaginato futuri non realizzabili (non per te), stabilito l’esatta valutazione della riuscita personale secondo il suo credo?

Giulio Perrone, autore ed editore dell’omonima casa editrice, dopo L’esatto contrario, Consigli pratici per uccidere mia suocera e L’amore finché resta pubblica con HarperCollins il suo primo vero romanzo autobiografico esplorando le dinamiche della relazione tra uomini più intima e profonda.

America non torna più è un racconto in prima persona, nel quale le voci di narratore e autore si fondono e si confondono dando vita a pagine lucide, dolorose eppure oniriche. Oniriche nella dimensione esplorativa dei racconti di giovinezza del padre, riscritti attraverso la penna di un figlio ancora in grado di sorprendersi per le notti brave, la musica, le amicizie totalizzanti, le donne, l’avventatezza di quando si ha tutta la vita davanti.

Mentre la malattia spietata avanza procedendo per sottrazione di intenti, parole ed emozioni, il narratore ripercorre l’età spensierata di suo padre, rivolgendosi a lui come se dovesse restituirgli quei ricordi ormai sommersi, non più fruibili per una mente affogata da un male che la degenera lentamente.

“Al tuo fianco gli amici di sempre. Diego e Fabrizio. Negli anni cambieranno solo i soprannomi. Oggi siete O’Brien, O’Reilly e O’Connor, per un film visto pochi giorni prima. Sentite il coraggio che conferiscono quei nomi e siete pronti a combattere contro gli avversari, schierati di fronte come un esercito nemico che vi rimanda lo sguardo fiero”.

Quelle amicizie degli anni ’60, ’70 e ’80 che rendono sempre magistralmente in letteratura perché rimandano ad un universo di relazioni ancora “intatto”, nel quale l’attesa e il perdersi per poi ritrovarsi erano parte integrante dei rapporti umani. Senza la raggiungibilità immediata di oggi dove le relazioni sembrano consumarsi con la voracità bulimica di un piatto preconfezionato. Tantissime conoscenze, tantissimi like e follower e pochi veri amici. Quelle amicizie sono invece mitiche, abbastanza lontane per risultare incorrotte, e sufficientemente vicine per conoscerne lo spazio socio-culturale dentro il quale vivevano.

“A te sono serviti i primi sei stipendi per poter finalmente avere il tuo. L’hai voluto azzurro, perché era quello il colore che piaceva di più a tua madre, un ricordo di Miranda. E l’ultima cosa che vorresti, dopo pochi giorni che ce l’hai, è rischiare di rovinarlo, ma le regole sono regole e quella volta tocca a te mettere la macchina. America, arrivando sul posto, ti ha subito chiesto secco: – L’hai portato il Cinquino?-.”

La restituzione della memoria a chi non riesce più a sentire. Perrone arriva dritto al cuore dei lettori a mezzo di una lingua asciutta ma elegante, in grado di ritrarre una condizione comune a molte famiglie quando si ritrovano ad essere testimoni di una vita che abbandona il corpo poco alla volta, lasciando in sospeso conversazioni intere. Quel ritrovarsi per ricordare, per raccontarsi, per recuperare.

“Nel giro di una settimana i fratelli di mio padre sarebbero arrivati. Mia madre era stata chiara: non c’era più tempo. Con l’inizio dell’anno la situazione era peggiorata. I dolori si erano acutizzati e la testa cominciava a perdere colpi. Non sapevo davvero più come recitare la parte di quello che crede che le cose alla fine vadano a posto.”

Il compito difficilissimo dell’accudimento, del corpo e della memoria. Nessun vorrebbe sovvertire quel ruolo naturale per diventare genitore del proprio padre. L’uomo col quale avevi discusso mille volte nella gincana dell’adolescenza prima e della giovinezza poi, quando i tuoi sogni appaiono sempre troppo nebulosi per poter essere realizzati da chi adotta l’impegno e il sacrificio come mantra dell’esistenza. Pure se la musica che ascoltava da ragazzo e i viaggi che faceva con gli amici di un tempo sembrano dichiarare esattamente il contrario.

“Sono solo tuo figlio. E non è detto che la tua sofferenza e il tuo benessere debbano venire prima di tutto. Non c’è ragione di proseguire con questa pantomima. Non ho amici a cui dirlo. Nessuna donna da chiamare per salvare la serata e fare in modo che il dolore sia più lieve. Siamo soli, ai due lati della stanza. E stavolta non c’è soluzione. Resta il silenzio che non hai la forza, la voglia, il desiderio di interpretare neanche tu.”

In questo libro si trovano pezzetti di noi, anche chi ha storie diverse può trovare similitudini, schemi familiari che si ripetono, dinamiche già esplorate, i sentimenti contrastanti e difficili da riconoscere quando un genitore sta morendo e tu in fondo un po’ lo odi per questo.

Perché non si diventa mai veramente adulti prima di perdere chi ti ha generato.

Angela Vecchione

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