Questa di Francesco Deiana è un’opera che possiede fin dal titolo un forte richiamo, quello del celebre motto attribuito a Socrate: «So di non sapere». Che il filosofo greco si sia espresso in questi termini oppure no, ha poca importanza in questa sede. Ciò che va rilevato è comunque il significato della citazione nella percezione comune perché capace di sintetizzare un approccio filosofico basato su un assunto paradossale. Ed è proprio in nome di questo paradosso che agisce la poesia di Francesco Deiana, poeta e performer torinese, classe 1981 e professore di filosofia.

I versi contenuti in I saggi sanno di essere ignoranti sono spesso ossequiosi di uno scandire metrico inserito all’interno di una dimensione tendenzialmente performativa e dunque adatta all’ascolto. Semplice e fruibile è la parola di Francesco Deiana, ma assai divulgativa e fortemente focalizzata sull’attualità, sulla condizione del poeta, del pensiero (si potrebbe dire meta-poesia, ma anche meta-pensiero) e sul paradosso.

Da qualche tempo non capisco niente

Da qualche tempo non capisco niente,
i social disinformano la gente,
la massa è diventata intelligente,
la crisi è un fattore permanente.

Mi sforzo di capire inutilmente,
a scuola il mio lavoro è da supplente,
è buffo perché paradossalmente
mi trovo a far di nuovo lo studente.

Il dubbio mi attanaglia nella mente,
c’è chi si vanta d’esser delinquente,
la differenza spesso è apparente.

Non ditemi che è stato un incidente,
se Cristo ritornasse nuovamente
lo crocifiggerebbero ugualmente.


Deiana, spesso e volentieri, utilizza la forma del sonetto senza troppi complimenti, anzi ne fa un vanto del proprio scrivere, una vera e propria peculiarità. Si noti l’effetto altamente giocoso che crea la gabbia metrica sapientemente costruita a suon di rime in -ente nei versi proposti. Il suono non intende andare nella direzione armonica, petrarchesca se vogliamo, tipica del sonetto della tradizione. Il poeta riproduce attraverso la ripetizione un limite invalicabile. Il componimento nella sua classica solidità diventa un vero e proprio meccanismo inceppato in cui va a sbattere quella razionalità che, al contrario dovrebbe animare l’indagine filosofica.

Il dubbio un’altra volta ha stravinto

La razionalità contro l’istinto,
la libertà rinchiusa in un recinto,
la verità appannaggio di chi a vinto,
mi sento in colpa a ogni pié sospinto.

Atene prima, Sparta e poi Corinto,
la storia occidentale a cui ho attinto,
studiare è un po’ come essere in procinto
di perdersi in un nuovo labirinto.

La gente che frequento mi ha dipinto
uno scenario che non mi ha convinto
l’immagine di un me da tempo estinto.

Mi sembra che sia sempre tutto finto,
non so fino a che punto mi son spinto,
ma il dubbio un’altra volta ha stravinto.

I versi di Francesco Deiana amano mostrarsi in una veste al tempo stesso civile ed esistenziale. Nel leggerli, talvolta, si ha la sensazione di avere a che fare con delle vere e proprie parodie spacciate per poesie, ma nei componimenti emerge spesso un lato esasperato, in particolare in quelle liriche in cui il poeta denuncia i mali di una generazione alla quale è stato promesso tutto e in cambio nulla ha ricevuto. In alcuni passaggi si prova anche la sensazione di uscire fuori dal seminato della forma poesia: non è un difetto, piuttosto un vezzo di tanti autori, voler rendere attraverso la ricerca di una formula inusuale qualcosa di autentico. Probabilmente Francesco Deiana in questi inceppamenti, in questo maneggiare temi seri dai risvolti grotteschi, per non dire folli, in questa sua “presunzione” che diventa unico e possibile atto di sfida rivolto al mondo, nella piccola certezza ritagliatasi negli anni di studio, incarna una voce che porta con sé la consapevolezza del non ascolto.

L’epilogo è tragico: il non sapere è il non capire; il non capire è il non accettare; il non accettare innesca una conflittualità irrisolta incuneata nella vita di quella generazione nata negli anni ’80 che dal paragone con i propri genitori ne esce distrutta, avvilita, mai entrata in partita, mai capace di incidere nei destini della società alla quale viene, paradossalmente, chiamata a far parte.

È un ritratto impietoso di un’epoca consegnato a un libro che rovescia il “mito” del sonetto, che dunque non andrebbe inteso come semplice forma, ma come una grande allegoria in cui il postmodernismo ha fagocitato il sapere costringendolo a convivere finanche col trash. Questa confusione, questo senso di smarrimento in cui è impossibile distinguere il vero dal falso, in cui le forme di affermazione restano individuali e spesso incanalate in facili compromessi, in cui l’intellettuale per levare la propria voce ha necessariamente bisogno di ammiccare al pop, al mondo dei consumi, al gradimento che ama l’appiattimento culturale, trova solo nell’amore per la sapienza un’ancora di salvezza.

Ma l’amore non sente ragioni, direbbe qualcuno. E forse è per questo motivo per cui i saggi, quelli veri, sanno di essere ignoranti, nonostante tutto. Così il sonetto, non unica ma prediletta forma chiusa del libro, diventa anche un modo per poter ragionare, con grande efficacia in certi momenti, quando si esce dalla “gabbia”. Perché la forma è sostanza, a patto che generi consapevolezza. Non importa se sia immaginifica o, come in questo caso, razionale. La forma di Francesco Deiana è coscienza del fallimento sempre a portata di mano e solo analizzando le sconfitte si può riprogettare un modo diverso di vivere. Salvo anteporre il proprio ego dinanzi alla catastrofe imminente.

Lo dice Aristotele

Lo dice Aristotele chiaramente:
il pensiero dispiega le sue ali
solo quando vive liberamente
e non si hanno bisogni materiali.

Per questo siamo tutti intellettuali:
oggi giorno nessuno fa più niente,
milioni di problemi sempre uguali,
ma nessuno di questi è così urgente.

Troviamo soluzione di concetto,
liberi di goderci poi i ricavi
del progresso e tenercelo ben stretto.

A pancia piena tutti siamo bravi,
ma come gli antichi greci, va detto,
viviamo sulle spalle degli schiavi.

Federico Preziosi