Vera Gheno al Women’s Fiction Festival ricorda la potenza delle parole

Festeggiare il ritorno alle parole, che è poi il ritorno alla gioia: così recita la traccia principale del “Women’s Fiction Festival”, kermesse sulla letteratura femminile che dopo una breve pausa e giunto alla quindicesima edizione, è tornata a parlare di autrici (ma anche autori) trasformazioni, storie e linguaggi.

E un festival che parla di letteratura non poteva non avere tra le sue ospiti d’eccezione Vera Gheno, sociolinguista, che con Emanuele Curti ha dialogato nella splendida corte di Palazzo San Domenico, nella città dei Sassi.

Gioie, dubbi, riflessioni e silenzi confluiscono nel suo ultimo libro Le ragioni del dubbio, edito da Einaudi, che nasce nel periodo pandemico ed è strutturato in tre – più una parte- e si conclude col silenzio, nel quale abbiamo rivisto le parole usate (o non usate) e il loro importante valore, riscoperto, riassaporato.

Perché le parole non sono mai solo parole: sono scie che contengono i nostri pensieri, le nostre certezze e le nostre perplessità.

Vera Gheno conosce le aspirazioni e gli inciampi delle parole: che come le rose di Gerico si aprono nei vari contesti contenendo visioni differenti.

“Un ragionamento potente sull’uso della parola non è un caso sia nato in quel preciso momento storico – ha spiegato l’autrice – quando tutti siamo stati costretti a spostarci sul web ed è esploso il disagio sociale che già serpeggiava in precedenza e tutti abbiamo dovuto affrontare i limiti del non saper comunicare”. Tutto è entrato in una fase di trasformazione e di messa in discussione in cui l’uso della parola è divenuto ancora più fondamentale.

Ed è qui che Vera Gheno si autodefinisce “linguista-militante”: “perché quando sei una linguista studi le parole come espressione delle persone, quindi innanzitutto studiamo gli esseri umani: noi insegniamo alle persone ad avere il dominio della parola e a vivere meglio. Sì, dalla comprensione di una multa, al progetto di un lavoro, a una conversazione nelle relazioni”.

Una sorta di felicità linguistica che serve a noi per aggirarci meglio in questo mondo complesso e per autodefinirci.

“Prima di accettare che il paradigma è cambiato e siamo circondati dalle diversità (religiose, di orientamento, sociali, territoriali…) – ha evidenziato Gheno – in cui tutte le persone hanno diritto alla felicità, dobbiamo dotarci di un linguaggio strutturato, in cui ciascuno è competente”.

Ciò che ho detto e scritto funziona anche in altri contesti? Dice una domanda del libro: siamo in contesti sempre più malleabili, cangianti.

Come si può andare avanti e prendersi cura dei processi come quello che riguarda la sovraestensione del maschile e l’utilizzo del famoso schwa.

“Lo schwa è la punta dell’iceberg – ha spiegato l’autrice – nella grammatica che si studia a scuola non si punta sulla comunicazione ma solo sulla struttura “classica”: invece servirebbe fare dei ragionamenti meta-cognitivi sulla parola. Chi è che inventa le parole? E per dire chi sono io ho bisogno delle parole? Molto. Questa lettera risponde ad una istanza nuova nella storia dell’umanità: quella di dare voce al proprio orientamento, a nuove identità di genere. Quindi come fare? Si è trovata la formula dell’asterisco, quella della “u” e altre soluzioni. Ma non occorre estremizzare questo utilizzo: si tratta di una vocale media che non ha un suono specifico, ma serve a chi non è binario”.

Siamo nel mondo dell’“infosfera”: siamo cresciuti con i testi, era così che arrivavamo al conoscere, ora, si giunge all’informazione con un clic.

“Senza il potere della parola non ci sarebbe la “polis” – ha spiegato l’autrice – e non si arriva alla conoscenza con un clic, si arriva all’informazione. La competenza è maturata nell’ambito di un lungo percorso: l’informazione è a portata di mano, ma non prevede l’approfondimento, quello va costruito. Anche con la parola: che è lo strumento più tecnologico che abbiamo”.

Antonella De Biasi