Vorrei avere più spazio per poter descrivere al meglio quella che è stata la vita di Natalia Levi Ginzburg. Se chi ha il dono della scrittura consente agli altri di vivere più vite, lei ce ne ha regalate tante. Lei che per prima possiamo dire abbia vissuto una vita simile a quella di un personaggio letterario.
Natalia Ginzburg nasce a Palermo nel 1914, ma trascorre la sua infanzia a Torino. Per i primi anni della sua vita compie studi privati, per poi vivere come un trauma il passaggio alla scuola pubblica. Proprio a quegli anni risale l’idea del suo primo racconto, intitolato Baffi Bianchi, testo autobiografico ambientato quando l’autrice ha poco più di undici anni. Un testo interessante e sorprendente, che pur nella sua semplicità merita una lettura approfondita.
Sebbene il percorso letterario di Natalia Ginzburg sia stato lungo e costellato di opere straordinarie, Baffi Bianchi ci restituisce un interessante spaccato dell’epoca in cui il racconto è ambientato. E allo stesso tempo travalica il tempo che ci separa da quei giorni parlandoci con una voce innegabilmente attuale: così che noi ci riconosciamo, in parte, in essa. In questo racconto riviviamo le angosce e i turbamenti di una ragazzina anomala per la sua età e per il periodo storico in cui è collocata. A differenza delle sue coetanee, Natalia non sa cucinare, stirare e lavorare a maglia. Insomma, non è in grado di occuparsi della casa e di prendersi in carico le faccende della propria famiglia. Per questo motivo si sente additata come “viziata” e come “impiastro”, sviluppando un senso di colpa e impotenza nei confronti della famiglia e della società in cui vive: «avevo sentito mio padre dichiarare che sarei stata un impiastro per sempre e che la colpa era di mia madre che mi aveva viziata».
Dalla lettura di Baffi Bianchi scorgiamo un aspetto centrale della produzione di Ginzburg: la centralità del tema familiare. La scrittrice mette in scena il rapporto controverso con i genitori, non temendo di mostrare gli aspetti più intimi del focolare domestico: la protagonista incolpa la madre di tutte le sue mancanze, e attua delle piccole vendette verso la figura materna assente, che la costringe a girare sola per la città per recarsi a scuola: «– Hai buttato giù qualcosa di caldo? Chiedeva mia madre dal suo letto. Non rispondevo, la castigavo con un freddo silenzio, la castigavo di mandarmi a scuola sola, di avermi comperato una penna stilografica che perdeva l’inchiostro. Di farmi portare un cappotto che lei trovava ancora buono e che io trovavo orribile… La castigavo, me ne andavo senza baciarla.»
L’aspetto della solitudine compare più volte nel racconto, non solo nell’ambiente casalingo ma anche nel contesto sociale, a scuola: «l’unica persona che a scuola sembrava accorgersi della mia persona era il professore, lo avevo molto amato fin dal primo giorno. Perché essendomi ruzzolata una penna vicino alla cattedra ero andata a raccoglierla e mi aveva sorriso. Mi addolorava che dovesse vedermi là, senza amiche, sola nel banco, sola nell’intervallo a mangiare. Che posasse ogni mattina lo sguardo sulla mia solitudine. Avrei voluto apparire trionfante felice e radiosa così come avrei voluto dargli dei quaderni senza errori.» Ancora una volta leggiamo il biasimo dell’autrice, che fa ricadere su se stessa tutte le colpe della propria condizione, che non si sente in grado di soddisfare le aspettative che famiglia e società hanno su di lei.
E ancora il tema della solitudine ritorna nel nucleo del racconto, l’incontro con l’uomo dai baffi bianchi – da cui deriva il titolo – che avviene casualmente, nel tragitto casa-scuola. La piccola protagonista dialoga con un uomo, credendolo dapprima amico del padre, e accorgendosi solo in seguito che è invece uno sconosciuto: «attraversò il corso con me, mi chiese quanti anni avevo, poi mi fece una domanda che trovai stranissima, mi chiese se avevo il papà. Compresi allora che non era affatto il professore Sacchetti. Ebbi subito davanti a me l’immagine di mio padre immensa e piena di collera. Stavo camminano a braccetto con uno sconosciuto […] caddi in preda ad un amaro rimorso, avevo fatto quello che mia madre mi diceva sempre di non fare». La bambina si trova impossibilitata a raccontare quest’incontro, proprio per l’aspetto di esclusione prima accennato. Sospettando di aver commesso un’imprudenza, tormentata dai dubbi e dalle possibili conseguenze di quel gesto, la protagonista ammette, tragicamente, di non poter condividere con nessuno l’evento: «non avevo una persona al mondo a cui mi sarebbe stato semplice parlare dei baffi Bianchi».
A partire da questo piccolo esordio, si dispiega la lunga carriera letteraria e politica dell’autrice. Natalia Ginzburg cresce in una famiglia antifascista (il padre e il fratello furono imprigionati e torturati dal regime). In seguito, si sposa con Leone Ginzburg, con il quale vivrà anni difficili ma felici, fino al tragico arresto del marito, nel 1943, e alla sua successiva morte in carcere.
Nel dopoguerra, dopo essersi sposata una seconda volta con Gabriele Baldini, si dedicherà soprattutto al lavoro di insegnante e alla carriera politica, portando avanti un fervente antirazzismo. Parallelamente a queste attività continua e si ramifica la vena letteraria dell’autrice. Nelle opere della maturità la sua scrittura tende il più delle volte a convergere verso argomenti semplici e quotidiani, ma che celano al loro interno una complessità vertiginosa. Protagonisti dei suoi scritti sono personaggi tratti dalla loro ordinarietà, che puntano il loro sguardo sul mondo: definendolo e in parte combattendolo, nella loro strenua e fondamentale lotta per continuare a rimanere se stessi. Esattamente come la ragazzina in cui Natalia Ginzburg tratteggiava se stessa, nel racconto Baffi Bianchi.
Silvia Carani
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