Partiamo dall’intraducibile, da un titolo che non riesco a tradurre, o, forse, non voglio. Sembra un incipit respingente per un invito alla lettura, ma, a pensarci bene, potrebbe anche avere un certo carisma. Offre subito l’opportunità di mettersi alla prova.
Disgraced.
Suona lacerato e distorto anche senza dargli un significato, assona con «disgrazia», ma è uno di quei false friends di cui è piena la lingua inglese. Preso così, da solo, nel suo secco simple past, «disgraced» è senza numero. Singolare o plurale? Chi o cosa è «disgraced»? Chi è caduto in disgrazia? O, ancora peggio, chi è stato infamato? Chi si è comportato in maniera vergognosa? O chi è sprofondato nel disonore? In quanti lo sono contemporaneamente?
Una serie di domande che rimanda quasi a un interrogatorio da libro giallo, piuttosto che ad un testo teatrale ambientato in un sofisticato salotto newyorkese. Eppure è questa la sensazione che se ne ricava, e questa nuvola di interrogativi, con i suoi vapori in continuo movimento, ogni tanto ci fa trasalire, schiacciandoci contro il muro delle nostre colpe, fatte di ipocrisie, luoghi comuni e di tutte quelle feroci verità che nuotano sotto la superficie delle nostre identità borghesi e liberali.
Questo è il percorso di Disgraced di Ayad Akhtar. Quattro scene da un salotto alto-borghese, dove si muovono Amir Kapoor, avvocato in carriera che ha sepolto le proprie origini pakistane, sua moglie Emily, giovane e bella artista affascinata dall’arte islamica, il brillante gallerista ebreo Isaac, la sua compagna afroamericana Jory, anche lei avvocato, ed Abe, nipote di Amir. Si troveranno tutti a cena, una sera qualsiasi, in un giorno qualsiasi, per brindare alla prossima mostra d’arte, ma la loro amichevole conversazione si trasformerà – e degenererà – ben presto in un acceso confronto sulle complesse questioni politiche e religiose del nostro presente.
Il testo nel 2013 ha vinto il Premio Pulitzer per il teatro e da allora è stato rappresentato in tutto il mondo riscuotendo un enorme successo. È un’opera coraggiosa, spudorata, sufficientemente affilata da riuscire ad offendere tutti, portando alla luce tutti i nostri più neri pregiudizi. In Italia non è stato ancora tradotto e pubblicato – si trova su Amazon facilmente e anche se l’inglese non è il vostro forte il testo è più che comprensibile – ma la sua messinscena aprirà la prossima stagione del Teatro Stabile di Torino, per la regia di Martin Kušej, direttore del Residenz Theater di Monaco, che per la sua prima regia in un teatro di prosa italiano, ha proposto di mettere in scena proprio questo piccolo capolavoro di Akhtar.
Basta un pomeriggio per leggerlo tutto, ma ci vorrà molto più tempo perché possiate alzarvi dalla tavola di quella ricca cena newyorkese ed aver digerito e metabolizzato tutte le sue pietanze.
Lorenzo Barello
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