Le vite delle donne e le leggi degli uomini, Women’s live, men’s laws, è il titolo di una raccolta di saggi di Catharine MacKinnon, professoressa di diritto americana, avvocato, attivista militante per i diritti delle donne da una vita. Ma lei è stata ed è soprattutto una pensatrice assolutamente originale, una donna dal pensiero forte, radicale e riformatore. Come mi ha fatto osservare un’amica giurista, MacKinnon è riuscita a creare una connessione, quel ponte necessario tra le aule dei tribunali e le realtà esterna, con le campagne svolte fuori, nella società, nelle università. Mackinnon non ha mai voluto essere “neutrale”, non ha mai creduto alla favola della giustizia e del linguaggio giuridico come un terreno neutrale, regno dell’obiettività, in cui neutrale e obiettivo sono ovviamente attributi del pensiero maschile. Per lei la giustizia è sempre stato un campo dove mettere in discussione le grandi categorie del pensiero: un campo sporco di riforma politica.
Women’s live, men’s laws è un testo accademico, uscito oramai vent’anni fa, che raccoglieva l’esperienza di un ventennio assieme a quel realismo giuridico (contro gli eccessi del postmodernismo e della terza ondata del femminismo perché, quando la realtà ti dà un pugno in faccia, la senti) e a quella giurisprudenza femminista che sono stati l’obiettivo di Mackinnon. Lo ripropongo oggi anche se pochi conoscono Mackinnon in Italia (di lei Laterza ha pubblicato Le donne sono umane?), a cominciare dal titolo, da quella frattura che il titolo contiene, quasi come se quello delle donne e quello degli uomini siano due mondi opposti pur abitando lo stesso. Perché quel titolo mi ha sempre dato la vertigine, quel suono in più che non tutti sentono. Perché si apriva su un vuoto, una distanza, che forse è anche una differenza (anche se Mackinnon ha sempre criticato il femminismo della differenza), e provava a contenerla; perché misurare la distanza senza chiudere gli occhi e cercare di accorciarla è tutto quello che possiamo e dobbiamo fare.
È quello che ha fatto la condanna alla pena massima, vent’anni, dell’ex-marito di Gisèle Pelicot, sedata e stuprata ripetutamente da Dominique Pelicot e da una rete di più di cinquanta uomini.
Quello di MacKinnon è uno di quei testi che ho studiato da giurista e che mi ha permesso di passare senza rimpianti e in modo molto naturale dal diritto alla letteratura. Che mi ha allenato a vedere nel femminismo una pratica: non una pratica con una propria logica, isolata, a fianco, o contro, ma piuttosto come una pratica trasversale, la teoria che dà voce ad una pratica, ad un allenamento duro, durissimo, fatto di resistenza, consapevolezza, di un’esperienza viva di disparità e discriminazioni, subordinazione e sfruttamento, ad ogni minima piega anche quella apparentemente più dolce e banale fino al baratro di tutti i crimini, dalle molestie domestiche o sul lavoro, ai maltrattamenti, allo stupro, ai femminicidi che sono compiuti contro le donne perché donne. Una pratica che anche quando sembra lontana dal nostro vissuto, è comunque lì con tutta la sua forza e la sua carica: ogni volta in cui ci siamo sentite tutte vulnerabili. Una pratica che sin dall’inizio è politica e trasversale, attraversando tutti i blocchi teorici e pratici che costruiscono le nostre società, dalla politica alla religione, dal diritto alla morale, dalla poesia alla letteratura, che agisce da dentro, dal basso verso l’alto, mettendo in atto meccanismi capaci di riformare e scardinare quelle relazioni di dominio e subordinazione e finalmente rifondare. Il processo Pelicot, in cui non ci sono eroine, ma solo una donna che fa valere i propri diritti, una donna al posto di altre donne, di tutte le donne, è un passo verso questa rifondazione. In cui la condizione di vittima e la vergogna che Pelicot ha deciso coraggiosamente di restituire agli uomini, tanti, troppi, che hanno abusato della sua condizione di donna è una cosa molto seria, che non va usata retoricamente né sensazionalisticamente. Questo femminismo che professionisti come MacKinnon hanno dedicato una vita a rifondare non è un femminismo tra molti, argomento pericoloso perché nel nostro caso, nel caso del pensiero femminile, il proliferare delle idee e posizioni sul femminismo invece di essere interpretato come un dibattito vivo viene criticato e scambiato per un dissenso interno. Mettiamo zizzania. Non è quello d’ultima ora, un femminismo di superfice alla riscoperta di icone, ma una forma di consapevolezza che ha radici profonde, plurale, che molte donne ma non tutte e ancora pochi uomini portano avanti quotidianamente, assumendosene la responsabilità.
Mackinnon ci spiega come il principio giuridico dell’uguaglianza e della non discriminazione così come incorporato negli ordinamenti giuridici e così come interpretato fino all’altro ieri, sia un principio scritto dagli uomini per gli uomini, da Aristotele fino ai giorni nostri. Il diritto tutto è stato scritto dagli uomini, ordinamenti interi che sono stati creati senza che gli interessi delle donne fossero rappresentati. L’idea di Aristotele secondo cui situazioni uguali devono essere trattate allo stesso modo e situazioni diverse devono e possono essere trattate diversamente, è stata l’interpretazione che la società, le leggi e la giurisprudenza hanno dato del principio di non discriminazione: treating likes alike and unlike unlike. Oltre ad assumere come standard di riferimento sempre l’uomo bianco eterosessuale, paradossalmente la soglia per avere diritto a non essere discriminate è proprio trovarsi in quella situazione simile (similarly situeted) che è ciò che non si dà e dovrebbe darsi. Un ossimoro. La gerarchia tra i sessi, il dominio maschile e la condizione di subordinazione in cui sono state messe le donne di fatto impediscono a molte donne di trovarsi nella stessa situazione in cui si trovano gli uomini. Ovvero proprio quelle situazioni discriminatorie che il principio di uguaglianza e non discriminazione avrebbe dovuto e dovrebbe tutelare. Su questa intuizione Mackinnon ha costruito la sua teoria e la sua battaglia per la tipizzazione del reato di “sexual harassment”, molestia sessuale sul luogo di lavoro, come una discriminazione di genere: ovvero un delitto commesso contro la donna perché donna. O difendendo un gruppo di donne stuprate durante il conflitto bosniaco. L’uguaglianza formale (c’è un unico standard, neutrale e siamo tutti uguali ed ugualmente diversi) è appunto formale e non sostanziale; finisce per non tenere in conto le differenze reali (le donne come gruppo guadagnano meno o niente e quindi sono più vulnerabili e bisognose) e protegge spesso proprio quel gruppo dominante (uomini bianchi, etero, con buon lavoro e buon reddito) che in principio non soffre discriminazioni. Il principio della non discriminazione positiva (quello che nel linguaggio giuridico si chiama doppio standard o della protezione speciale di certi gruppi) finisce per accettare le condizioni del dominio maschile e perpetrare quelle differenze e diseguaglianze sessuali che sono delle discriminazioni e che ci siamo abituate a percepire ed assumere come delle nostre diversità. Per Mackinnon, dunque, l’eguaglianza va ridefinita come una questione di distribuzione del potere e di ridefinizione di un modello dominante che normalizza la violenza sulle donne.
Come giurista MacKinnon ha lavorato per fare in modo che gli abusi sofferti dalle donne “in quanto donne” (dalle differenze salariali, ai maltrattamenti e abusi in famiglia, alla violenza sessuale, al femminicidio, o alla prostituzione) siano intesi come frutto di un sistema istituzionalizzato di disempowerment, e di subordinazione, che svantaggia le donne in quanto donne: come una questione di discriminazione sulla base del sesso, sempre e comunque.
La condanna Pelicot sta nello spazio tra teoria e pratica; tra finzione e realtà. Lì dove la vita per noi donne è quella cosa che conosciamo benissimo perché la viviamo e vivendola la teorizziamo ben oltre qualsiasi teoria. Lì dove essere donna non è né un dato biologico, né una manipolazione culturale, ma piuttosto, in linea con il pensiero di Mackinnon, un nesso, un’intimità (quel nesso che Ferrante porta fino in fondo ne L’amica geniale), la condivisione di una esperienza di vulnerabilità e coercizione sistemica; la condivisione di un rischio; quello specchio in cui da vicino o da lontano siamo viste e ci siamo abituate per riflesso a vederci; sapere che noi non siamo questo, non siamo quello che vogliono farci credere di essere.
Quale teoria allora si chiede MacKinnon? Una teoria della pratica, che non si masturba in giochi di logica e di retorica, che non insegue grandi utopie, moralizzante, un ennesimo esercizio di autoritarismo. No, una teoria che faccia esercizio di umiltà e che si basi sulla partecipazione.
In questo spazio che il processo di Mazan e la sua sentenza riduce, cade la vita delle donne che MacKinnon coglie con parole esattissime: la vita delle donne, quella cosa di ogni giorno, quel ciclo di minuzie, una litania di bisogni da servire, di tempo speso ma raramente occupato, una specie di orizzonte che retrocede mentre ti avvicini, quella vita di cui per mano di uomo donne come Gisèle Pelicot non sanno neanche di star vivendo. “The sameness in women’s lives is as striking as the diversity of conditions under which it is lived”. È lo spazio privato, al di fuori della legge, l’intimità in cui la legge non interviene, che diventa un perimetro di isolamento e disperazione in cui il diritto si fa complice di tante distorsioni. Fino a sentenze come questa anche se purtroppo l’unico ad essere stato condannato a vent’anni come richiesto è stato il marito di Gisèle Pelicot, mentre tutti gli altri uomini processati sono stati condannati a pene ridotte rispetto a quelle richieste, uno di essi addirittura solo alla pena irrisoria di due anni con sospensione.
Ma la sentenza viene dopo. Prima sta la voce di Pelicot, la pratica, terrena e non “stratosferica”, la sua decisione di restituire la realtà, la vita delle donne, così come si è data a lei, senza paura, senza vergogna, a forzare lo spazio, la distanza, a rompere quella parete di gesso tra spazio privato e spazio pubblico. La realtà non esaurisce il reale. E, come scrive Mackinnon: “le donne sperimentano come muri i muri che le hanno contenute e qualche volta ci passano attraverso”.
Silvia Acierno
Ringrazio per la lettura e i commenti Lea Iandiorio e Laura Di Gregorio
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