Allenare significa aiutare esseri umani a realizzare i propri obiettivi, risvegliare le possibilità che sono in loro, vederli migliorare e, forse, un giorno vincere. Guardandoli da lontano”. Mauro Berruto, nella sua autobiografia Capolavori edita dalla casa editrice Add, mostra come l’allenare sia un gesto, un mestiere che si nutre di proprie regole autonome che vanno al di là dello sport o della squadra che si allena. Questo eclettismo, insito nel mestiere dell’allenare, ha consentito a Berruto di essere allenatore di pallavolo, a tutte le latitudini, ma anche di essere direttore tecnico della nazionale di tiro con l’arco. Tutto questo, per Berruto, è possibile proprio per la radice comune che questo mestiere ha e che viene rintracciata nella cultura.

Mauro Berruto, Capolavori. Allenare, allenarsi, guardare altrove, Add editore 2019

Nella prima parte del suo libro mette in campo un’ipotesi interessante quanto ardita: la cultura e lo sport hanno molto in comune. Come ciò è davvero possibile? E può esserlo universalmente?

Ne sono fermamente convinto. Lo sport è cultura. Cultura che si esprime attraverso il movimento, l’espressione corporea. Corpi che eseguono movimenti armonici, talvolta veri e propri capolavori, di bellezza o espressione di volontà, nel rispetto di regole o di canoni che qualcuno, prima o poi sfida, supera, sublima. Faccio un unico esempio, paradigmatico: pensate al salto di Dick Fosbury ai Giochi Olimpici del 1968. Non ritroviamo in quel gesto, splendido e folle, tutti questi parametri? Beh, io credo che il salto di Fosbury sia senza nessun dubbio un capolavoro, della stessa portata del David di Michelangelo, di Guernica di Picasso o de Il Vecchio e il mare di Hemingway. Lo sport, come l’arte o la musica, parla certamente un linguaggio universale. Ci sono calciatori di fama planetaria la cui gesta arrivano a miliardi di persone, in maniera più profonda e intensa dei fondamentalismi religiosi. 
È curioso che spesso artisti che allenano e usano il corpo proprio come gli sportivi (mi vengono in mente i ballerini classici, per esempio) vengano considerati espressione di cultura, mentre un calciatore, un cestista o un pallavolista, no. 

Nella sua vita ha avuto modo di viaggiare molto e il viaggio è una delle metafore che ricorrono più spesso nel libro. Quanto, secondo lei, la dimensione del partire e l’interfacciarsi con altre culture è importante per la definizione di noi stessi?

Il mio percorso accademico mi ha condotto a una laurea in Filosofia, ma la mia disciplina di laurea è stata l’antropologia culturale. La mia risposta, dunque, è scontata. Non solo è importante viaggiare  e confrontarsi con culture diverse dalla nostra: è fondamentale. Se non potessimo incontrare nel nostro cammino qualcosa di “diverso”, di altro da noi, non potremmo definire il noi. Il rapporto identità/alterità è fondamentale per la sopravvivenza stessa della nostra specie, tanto da un punto di vista biologico che culturale. Tutti i sistemi chiusi (in economia, in politica, nell’arte) sono destinati a morire per esaurimento delle risorse. Lo sport inchioda la necessità (e la bellezza) del rapporto con l’altro in un concetto estremamente semplice: senza l’altro (il nostro avversario) non potremmo neppure iniziare a giocare. Pensate alla differenza con l’approccio bellico o di certi estremismi politici che, al contrario, desiderano l’annullamento, la sparizione dell’altro. 

Una delle parole più usate, e a volte abusate, nella dimensione sociale è meritocrazia. A suo avviso lo sport può considerarsi davvero l’esempio migliore di meritocrazia?

Sì, certamente lo sport è un avamposto di meritocrazia. Lo sport, quello agonistico, non perdona: non si può arrivare al successo o al record grazie a una raccomandazione oppure per pura fortuna. Se non si possiedono abilità e competenze tecniche accompagnate da una enorme forza di volontà (e naturalmente di una certa dose di talento) è impossibile farcela. Poi, non bisogna dimenticarsene mai, esiste anche un altro modo di intendere lo sport che prescinde dall’agonismo esasperato, dal successo. Lo chiamo “cultura del movimento” ed è una polizza sulla qualità della vita, sul benessere, sul buonumore, sull’ottimismo. Dovrebbe essere quello insegnato dalla scuola, in modo da creare i presupposti, per tutti coloro che lo desidereranno, di mettersi alla prova con l’agonismo. Per tutti gli altri, invece, l’abitudine a praticare uno sport resterà un modo di interpretare la vita, denso di significati positivi. 

L’esperienza più importante della sua vita professionale è stata sicuramente quella di guidare la nazionale italiana di pallavolo alle Olimpiadi di Londra 2012. Quale emozione ha provato a sedere sulla panchina di due suoi maestri quali Julio Velasco e Giampaolo Montali?

È importante avere dei maestri, oggi ancora di più. Ho imparato tutto da loro, avendo avuto la possibilità di vederli lavorare, o come nel caso di Giampaolo Montali, lavorando al loro fianco, da assistente. Non sono certo stati corsi di aggiornamento a farmi diventare quello che sono diventato. Sedere sulla panchina da loro occupata in passato, quella della nazionale italiana, è stata una emozione grande, certamente, accompagnata da un desiderio ancora più grande di essere all’altezza del compito. Non solo per vincere qualche medaglia, ma per continuare a trasmettere quel loro messaggio. Una delle cose che mi rende più orgoglioso è che tanti miei atleti e collaboratori siano diventati bravissimi tecnici. È come se il mio lavoro e la mia passione si fossero in qualche modo conservati e perpetuati nel tempo. L’attuale CT della nazionale italiana era il mio assistente, lo storico capitano della mia Finlandia oggi è il CT della Russia, per esempio.  

La sua esperienza professionale dimostra che l’allenare è una professione interdisciplinare. Quali sono i consigli che darebbe, da allenatore, a dei ragazzi che vogliono scrivere il loro primo libro?

1) Leggere, leggere e ancora leggere! Non ci sono dubbi, questa è la cosa fondamentale. Leggere, tanto e tutto. Romanzi, saggistica, poesia, graphic novel, riviste, quotidiani. Leggere ogni giorno, leggere senza soluzione di continuità.
2) Non avere fretta. È normale che non si veda l’ora di pubblicare, ma tornare su quanto si è scritto, senza cedere alla fretta di concludere, è certamente un modo di migliorare il proprio lavoro. 
3) Scegliere delle persone di cui ci si fida (e alcune di queste devono possedere un forte spirito critico!) e far loro leggere i propri lavori prima di proporli a qualche editore. Saper cogliere e ascoltare i feedback (che devono essere onesti) dei propri primissimi editor è il terzo elemento decisivo. 

Il libro ha un titolo non casuale: Capolavori. Lei confronta, infatti, i capolavori dello sport con quelli della cultura per analizzarne le somiglianze. Quale considera, tra i tanti obiettivi raggiunti in carriera, il suo capolavoro?  

I capolavori (nello sport come nell’arte) sono la piena trasformazione di un potenziale in una performance. Tutto ciò può coincidere con una medaglia olimpica, l’esposizione della propria opera in un museo o nell’assegnazione di un premio letterario, ma (come ho tentato di raccontare nel libro) non solo.  Non è detto che questa performance debba essere sinonimo di “vittoria”. Dunque, per rispondere alla domanda, scelgo una squadra con cui non ho vinto medaglie, ma con la quale sono stato protagonista di un cambio di paradigma per un Paese intero. Scelgo il mio lavoro, lungo sei anni, con la Finlandia, una nazione dove al mio arrivo la pallavolo era uno sport considerato assolutamente di secondo piano, ignorato dai tifosi e rappresentato da una squadra nazionale che da dieci anni non riusciva neppure a qualificarsi all’Europeo. Arrivammo quarti (la classica medaglia di legno!) all’Europeo del 2007 in Russia, di fronte a 3500 finlandesi che avevano raggiunto Mosca per sostenere la squadra. L’anno successivo, a Tampere, vincemmo contro il Brasile campione olimpico e mondiale, di fronte a una folla impressionante. E poi ancora, vincemmo contro gli Usa, la Russia, la Serbia, la Polonia: tutte le migliori squadre al mondo. 
Non c’è nessuna medaglia a ricordarmi quel capolavoro, ma ho i brividi sulla pelle ancora oggi, parlandone. 
Forse, come diceva Jean August Dominique Ingres, “I capolavori non sono fatti per sbalordire. Sono fatti per persuadere, per  convincere, per entrare in noi attraverso i pori”.

Francesco Marino Iandiorio