Un furto. Una donna in fuga per raggiungere l’uomo che ama. Un solitario e lugubre motel nella tranquilla provincia americana. Una mente sconvolta dalla follia. Il destino in agguato.
Questi, in breve, elementi ormai noti della trama di un thriller diventato subito un cult-movie, al quale si associa immediatamente il titolo un po’ sconcertante di Psycho e ovviamente il nome del regista Alfred Hitchcock.
Per questo film fu utilizzato un soggetto considerato degno di un film horror di serie B: Psycho, infatti, è tratto dal libro omonimo di Robert Bloch, un romanzo di scarso valore letterario ispirato a una persona realmente esistita: Edward Gein, un serial killer (cioè un pluriomicida che torna a ripetere, nel corso del tempo, crimini simili e con analoghe modalità, spinto dagli stessi moventi).
A differenza di altri film, Hitchcock si attiene abbastanza fedelmente alla storia originale. Anche se vi sono subito attacchi diversi, nel libro l’azione comincia al motel, in una scena da “quadretto familiare” tra Norman Bates e sua madre; il film, invece, inizia con il furto di Marion Crane e la sua fuga con il denaro verso la California per raggiungere il suo amante. È una scelta effettuata consapevolmente dal regista: presentare da principio una sequenza di scene che non hanno in realtà alcun ruolo nel delitto in quanto volutamente tesa a depistare lo spettatore; e le false piste sono realizzate con le ripetute inquadrature sui soldi e l’incontro con il poliziotto o il cambio di automobile (assolutamente presente nel libro) effettuato da Marion. Ciò per accrescere notevolmente la sorpresa fino al momento della risoluzione del plot. A ben guardare, però, gli elementi principali della storia sono tutti nella prima scena, che presenta i due amanti dopo aver fatto l’amore: voyeurismo (avvicinamento lento della macchina da presa alla finestra) attrazione sessuale e nudità, amori impossibili, stanza d’albergo. La scena del delitto è evocata fin da qui, fin dall’inizio. Ulteriore modifica operata da Hitchcock è data dalla figura di Norman, occhialuto e grassoccio nel libro, snello e belloccio nel film. Questo perché un’altra modalità adottata nella costruzione del film è la negazione di ciò che si aspetterebbe normalmente: anche se la morte inattesa della protagonista (e solo nel film diventa inattesa proprio grazie a quella lunga e apparentemente immotivata sequenza iniziale) a circa metà film o l’assassinio dell’investigatore Arbogast – un personaggio che sembrava fatto apposta per infondere sicurezza – sempre con l’effetto di spiazzare completamente lo spettatore, rispondono a tale logica di suspense. Altra differenza del film: non mostrare Norman nella sua vera natura schizofrenica sin dall’inizio, come aveva fatto Bloch nel libro, ma nella falsa normalità. Nella versione cinematografica, poi, la figura della madre di Norman è una vera e propria “presenza-assenza” grazie alla sua voce fuoricampo, alle sue ambigue apparizioni da ingegnose riprese dall’alto, elemento che contribuisce a creare un senso di generale smarrimento. Per ovvie ragioni legate alle caratteristiche del “medium” utilizzato, nel libro la madre di Norman è una figura paradossalmente più scoperta, più palese e al tempo stesso più assente. Nonostante i limiti del romanzo, il grande incastro della suspense, Hitchcock lo ha portato sugli schermi facendone secondo una sua definizione un film puro, dotato di specifico cinematografico, cioè di arte cinematografica piegata allo scopo di creare un’emozione di massa. Eppure si ritrovano nel film e nel libro tematiche comuni: l’interesse per la psiche umana analizzata nei suoi recessi più intimi e tenebrosi; il tema del “doppio” come dissociazione della personalità; quello della sessualità rimossa o pervertita o vissuta come peccato; il rapporto come consapevolezza e innocenza; l’ambiguità e la difficoltà di rapporti umani in particolare tra uomini e donne. Tutto ciò è dato dal fitto intreccio di allusioni, presenti sia nel film sia nel libro, creato dalle battute, dagli oggetti (gli uccelli impagliati collezionati da Norman), dagli atteggiamenti dei personaggi (la ritrosia nel dare certe risposte nel Norman “scritto” e l’inquadratura di spalle mentre sale le scale con andatura tipicamente femminile in quello “filmico”). Ma, in fondo, il tema trascinante è lo stesso, poco sottolineato da Hitchcock ma comunque distinguibile, e cioè quello della doppia personalità, vista non solo nel suo aspetto più spiccatamente patologico, ma in quello presente nelle persone comuni (vedi Marion-brava impiegata e Marion-amante e ladra). D’altronde la doppia personalità, benché apparentemente offra un’ulteriore possibilità di realizzazione e liberazione dell’ego, alla fine non fa altro che costruire una sorta di trappola, di “nodo alla gola” da cui è veramente difficile uscire. Sapete che cosa pensa? Che ognuno di noi è stretto nella propria trappola, avvinghiato, e non riesce mai a liberarsene… e mordiamo e graffiamo, ma solo l’aria, solo il nostro vicino e, con tutti gli sforzi, non ci spostiamo di un millimetro […] Io ci sono nato nella mia trappola…
Anna Maria Maccariello
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