Anno 1 | Numero 6 | Marzo 1998

“In fondo tutto ciò che è viola è magnifico… Cose deludenti: un cane che latra durante il giorno… Un letterato a cui nascono soltanto figlie… I mari più attraenti sono… Tremenda è la pioggia intermittente… La paura sconvolge quando si sente dire che è scoppiata un’epidemia… Sarebbe bello se gli usignoli passati i mesi primaverili tacessero del tutto… A mio avviso i cuculi sono gli uccelli più interessanti… Nel sesto mese il cuculo non si ode più, la qual cosa, inutile dirlo, è bellissima, perché ci evita la delusione di un canto meno armonioso…

Quando ho cominciato a leggere le Note del Guanciale ero imbarazzato davanti ad affermazioni di questo genere. Pensavo: facile, tutti avrebbero qualcosa da dire a proposito dei colori e delle stagioni che preferiscono, ma non per questo pretendono di comunicarle in modo così sfacciato. Le stesse cose ciascuno di noi è costretto a sentirle nella vita di tutti i giorni, magari in forma meno poetica, ma comunque simili. E allora perché dovremmo collezionare le preferenze di una dama giapponese morta nel millennio scorso? Perché ci dovrebbero interessare le cose che riteneva deludenti, noiose, disarmoniche, terrificanti, insulse o piacevoli? All’inizio si ha come l’impressione che l’autrice stia abusando della nostra fiducia, e quando la sentiamo affermare con troppa autorevolezza che d’inverno il primo mattino è bellissimo, o soprattutto quando cade la neve, tendiamo a non darle retta, pensando che gli elenchi delle sue preferenze si limitino ad essere un gioco raffinato.

Fin dalle prime righe colpiscono gli accostamenti, le belle associazioni di immagine, che danno subito uno strano colore alle pagine. Ma ancora non ne siamo convinti, ancora non siamo in grado di comprenderle. Solo andando avanti nella lettura ci accorgiamo di quanto bisogno abbiamo delle sue osservazioni. Quando comincia a descrivere i quadri d’ambiente, le feste e le cerimonie religiose, Sei Shōnagon ci fa entrare nel palazzo e smette di guidarci. Alle nostre spalle il portone viene richiuso. Cominciamo a camminare per le stanze, sentendo l’eco degli scongiuri dei dignitari, e ci fermiamo ad ascoltare i pettegolezzi dei guardarobieri. Siamo soli, nella corte imperiale del X secolo, un mondo fatto di strane figure, di gesti e colori che non riusciamo a comprendere.

Per entrare in quel mondo c’era sembrato pretenzioso, la distinzione tra le cose belle e quelle sgradevoli, le foglie che più dobbiamo apprezzare nei vari mesi dell’anno, il contegno che dovrebbero tenere i dignitari di corte, andando avanti nella lettura, avvertiamo il bisogno di conoscerne le regole, chiediamo informazioni sul modo in cui bisogna vestire o sul contegno da tenere alla funzione del tempo, quasi fossimo sul punto di fare il nostro ingresso alla reggia. Abbiamo bisogno di lei, della sua capacità di evocare la realtà nella sua completezza, e Shōnagon ci accontenta com’è suo dovere. Lo fa con la sicurezza che ostentava in presenza dei dignitari, con la ricchezza di particolari di citazioni.

Lei stessa racconta che un giorno, un gruppo di nobili la mandarono a chiamare nei loro appartamenti. Indicando dei rami di prugno di fiori, le chiesero di comporre versi ispirati a quella vista, e lei, com’ era suo dovere di letterata, eseguì il compito. “Caddero presto” rispose e in breve quel verso fu apprezzato da tutta la corte. Shōnagon ci informa di questo, come se il giudizio dei nobili fosse una garanzia anche per noi. In lei non c’è mai la ricerca di un interlocutore più alto, che potrebbe comprenderla meglio di quando facesse la sua amata imperatrice. Quello che turba profondamente nel racconto di Shōnagon, è proprio l’apparente mancanza di interesse per un lettore astratto, per un lettore che non appartenga alla stretta cerchia del suo tempo. Il destinatario dell’opera oscilla in modo curioso tra l’autrice stessa e l’imperatrice. A volte traspare una preoccupazione eccessiva per la gente che la circonda, per il giudizio che potrebbero dar della sua opera, e le lodi all’imperatrice Sadako non suonano mai come semplice pedaggio pagato al potere. Nelle descrizioni dei regnanti troviamo un’autentica simpatia e nell’interesse costante dimostrato alle loro grazie sembra quasi che il testo non riesca a trovare una dimensione abbastanza privata. In altri punti invece ci imbattiamo in dichiarazioni di questo genere: “Pensavo che nessuno avrebbe mai visto quello che io andavo scrivendo con tanta spontaneità… Così ho scritto di tutto… secondo l’ispirazione del momento.” Se non stiamo all’erta queste parole rischiano di convincerci. L’ironia di Shōnagon è molto sottile e non trae in inganno soltanto il Primo Ministro e i guardarobieri del palazzo. Il disegno dell’opera è talmente chiaro da risultare invisibile. La leggerezza delle sue parole, nell’evocare un utero mondo, fanno pensare alle impressioni sconnesse di una ragazzina che avverte il passaggio delle stagioni, e quasi ci dimentichiamo di prestarle attenzioni. Non ci rendiamo conto di quanto pesino quelle affermazioni sul nostro giudizio e continuiamo a leggere le Note del guanciale come semplice diario di una persona sensibile e abbastanza abile nel descrivere gli avvenimenti.

A sua prima lettura siamo portati a credere che Sei Shōnagon non riesca a rompere il ghiaccio dell’effimero e quindi a trovare una voce che nasca veramente da se stessa. Sembra che esista una forte stonatura tra le parti in cui si affermano con insistenza le impressioni e quelle di pura descrizione della vita di corte. Troppo perentorie le prime e quasi prive dì distacco le altre. Le pagine di impressione evocano pezzi di realtà. L’autrice dona significato ad ogni cosa, ma è un significato che ci sembra remoto, non riusciamo ad afferrarlo fino in fondo. Mentre le pagine descrittive, occupate da feste e processioni religiose, con un interesse costante per le condizioni atmosferiche e il vestiario degli invitati sembrano fermarsi al semplice affresco.

Ma è proprio questa bellezza delle Note del Guanciale. L’apparente frattura di queste due anime, che si alternano continuamente senza arrivare a una fusione. La possibilità di connetterle è lasciata completamente nella mani di chi legge, alla sua costante interrogazione degli affreschi per dar senso alle impressioni e viceversa. Raramente i due aspetti trovano una conciliazione. Quando accade lo fanno splendidamente come nel racconto della Montagna di Neve che deve resistere quindici giorni dopo l’anno nuovo (L’inizio della primavera), nella storia del finto albero di ciliegio rovinato dalla pioggia, o nello splendido ritorno del cane Okinamaru dalla morte. Il riconoscimento di Okinamaru, che piange sentendo parlare delle sofferenze è uno dei passi più delicati dell’opera. Qui il dipinto effimero di Sei Shōnagon sembra incrinarsi, vediamo delle crepe, una distanza critica nella descrizione, ma è solo un istante, poi tutto, con grande abilità, torna ad essere il normale resoconto della vita di corte, il solito affresco in apparenza privo di spessore, abbagliante nei toni degli abiti adattati alla natura del paesaggio, nelle sopravvesti bianche, nelle gonne celesti e nelle vesti color prugno e foglia quasi secca.

In tutti gli episodi descritti, per arrivare a un significato pieno, è necessaria l’integrazione con le parti di impressione. Mentre stiamo leggendo, improvvisamente, ci ricordiamo delle descrizioni sulla neve nei diversi periodi dell’anno, dei latrati dei cani durante il giorno e subito gli affreschi prendono un colore più intenso.

Quando nelle feste religiose cade un pettine a una dama, ci torna alla memoria il sentimento che gli era collegato. Un pettine che cade è una cosa odiosa. Quasi di nascosto riusciamo a sentire nel chiasso della festa i pensieri della dama a cui è appena caduto. Ricordiamo di essere stati istruiti su questo e spendiamo la nostra conoscenza proprio nel momento preciso in cui accade.

Poco alla volta ci rendiamo conto che ogni particolare annotato in una riga tra gli altri che generano lo stesso sentimento è un pigmento base per dipingere un certo affresco, che verrà modulato più avanti o che è già stato modulato in precedenza. Quelli che avevano l’aspetto di annotazioni sconnesse, riferite nel diario di una ragazzina, sono i mattoni per costruire un mondo di un coerenza spaventosa. E il mondo geometrico dell’aristocrazia, definito nei minimi particolari perché niente di esterno lo possa turbare. Le gradazioni del cielo sono precise, così come i fiori che adornano le feste. Quando leggiamo gli elenchi dedicati alle cose sgradevoli, proviamo un certo imbarazzo nel trovarvi le persone di bassa estrazione. Compaiono improvvisamente immagini di un mondo contadino lontanissimo da quello della corte, un mondo di gente abbronzata e vestita di stracci che l’autrice naturalmente disprezza.

Leggendo questo abbiamo un moto di ribellione, ma appena ci dimentichiamo di quelle pagine ecco che i poveri tornano negli affreschi e ci fanno ribrezzo esattamente come lo facevano ai nobili dell’epoca. Ogni singola immagine evocata da Shōnagon c’entra nella mente col titolo esatto con l’emozione che le è stato affidato. Così quando vediamo un Bonzo, un monaco dalla testa fresca e lucida, non possiamo non trattarlo con diffidenza, perché ricordiamo il suo comportamento tipico verso le donne e la sua vita priva di gioia. La chiave di lettura di quel mondo è così sicura da risultare soffocante. C’è sempre una perfetta corrispondenza. Il viola ci dà sempre una grande allegria quando lo incontriamo sulle vesti, e la pioggia non è mai piacevole, se intermittente, e cade quasi come una ferita nella pagina che la descrive. Questo ordine totale ci permette di entrare in un mondo statico, a cui Shōnagon crede profondamente, e all’interno del quale non permette nessun imprevisto. Lei stessa diventa con la sua prosa una muraglia impenetrabile contro ogni inconveniente esterno. Dice di non parlare volutamente di fatti dolorosi, ma in realtà lo fa spesso, proprio perché deve allontanarli. L’epidemia di vaiolo che sconvolse l’impero è annoverata tra le cose spiacevoli, insieme all’involucro spinoso delle castagne. È qualcosa che sta al di fuori da quello che lei si è proposta di cantare, ma è ben presente, come è presente la morte accanto alla ragazza tisica che tossisce, tra le invocazioni dei bonzi che lanciano occhiate alle dame. La nostra attenzione è catturata dai bonzi, perché fanno parte dei colori che Shōnagon ci permette di leggere, ma la morte sta comunque lì accanto ed è pronta a incrinare il cristallo della descrizione. La morte della giovane, i suoi ultimi pensieri non li conosciamo, l’autrice non ci ha dato gli strumenti per farlo, ma la sua immagine non è scomparsa dai margini del quadro. Ed è proprio in questi margini, accanto alla cornice, le che Note del Guanciale raggiungono, quasi in modo inconsapevole le loro pagine più belle.

Per esempio nella zona di frontiera tra il mondo della corte e quello del popolo.

Sei Shōnagon si lamenta che gli usignoli non vadano a posarsi nel canneto o sul prugno maestoso della reggia imperiale, ma preferiscano stare appollaiati sui “prugni mediocri… in povere case di contadini…” Aggiunge subito che gli usignoli sono in verità uccelli fastidiosi e giudica irritante il nome che il popolo da loro comunemente. Il popolo li chiama Mangiainsetti e questo per la sensibilità di Shōnagon è tremendo. Gli usignoli tradiscono la reggia e devono essere giudicati di conseguenza. Così ci informa che gli usignoli sono uccelli che vivono troppo a lungo e la loro voce in estate diventa roca e sgraziata. Bisognerebbe che tacessero ‘‘… come non si parla di coloro che hanno preso ogni nobile caratteristica umana e la cui fama sia venuta meno…”

L’uccello della reggia è il cuculo, perché sa cantare con voce trionfante. Il cuculo è un uccello fragile, ed è per questo che Shōnagon lo ama tanto. Lo ama perché a differenza dell’usignolo smette di cantare prima di rovinarsi la voce e quindi rimane immobile, in quel momento di eleganza che per lei equivale alla vita.

C’è un episodio nelle Note del Guanciale, in cui le dame escono insieme, in una carrozza adorna di fiori per ascoltare il canto dei cuculi. Al ritorno l’imperatrice chiede loro se abbiano composto qualche poesia e Shōnagon per l’imbarazzo di non aver composto niente, tenta invano di scrivere qualche verso. Nel chiuso della stanza, non ci riesce. I Cuculi si possono cantare soltanto sulla scia del loro canto e sembra quasi che nel silenzio non le sia rimasto niente, nemmeno il ricordo.

È difficile capire a fondo un concetto del genere, così com’è difficile capire perché Sei Shōnagon abbia praticamente smesso di scrivere quando l’imperatrice Sadako morì, dando alla luce la seconda figlia.

Sei Shōnagon cadde in disgrazia e dovette abbandonare la corte.

Sembrerebbe il momento più adatto per una raccolta di memorie, un momento di ritiro in cui trovare il giusto distacco dalle cose ed elencare tutte le impressioni che si sono raccolte durante la vita. Sembrerebbe il momento più adatto per le Note del Guanciale. Ma forse sto ragionando un po’ troppo da usignolo.

Filippo Taricco

“I predicatori dovrebbero avere sempre un viso piacevole, solo se esso è tale da doverlo contemplare senza rivolgere altrove la nostra attenzione, possiamo comprendere a fondo le profonde verità che vi vengono espresse.”

Sei Shōnagon (清少納言 Sei Shōnagon; 965/967 – dopo il 1010) è stata una scrittrice e poetessa giapponese al servizio dell’imperatrice Teishi (Sadako) presso la corte imperiale di Heiankyō durante il medio periodo Heian. Sei Shōnagon deve la sua fama alla sua unica opera in prosa pervenutaci, le Note del guanciale, una raccolta in stile “zuihitsu” (随筆) contenente osservazioni, aneddoti, elenchi di cose piacevoli e spiacevoli, un catalogo di preferenze e di giudizi, poesie, lamentele, pettegolezzi e qualunque cosa avesse catturato il suo interesse negli anni trascorsi a corte. Tra i riferimenti concreti alla storia del Giappone Heian presenti nel testo sono degni di nota i riferimenti di Sei Shōnagon riguardo ai problemi che l’imperatrice Teishi dovette affrontare dopo la morte del padre, quando l’influente Fujiwara no Michinaga diede una delle sue figlie in sposa all’imperatore Ichijō. Sei Shōnagon parla del declino e della morte della sua più grande benefattrice cercando di evitare toni tragici, e non facendo riferimento alle proprie difficoltà, probabilmente per non mettere per iscritto un ricordo negativo associato all’imperatrice.

In libreria

Sei Shōnagon
Note del guanciale
SE, 2002
Collana: Testi e documenti
A cura di L. Origlia
325 p., brossura
€ 29,00

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