“on croit qu’on peut imaginer…” (“ crediamo di poter immaginare…”)

N. Sinno

Queste pagine corrono come tristi tigri in una foresta primordiale quanto il bene e il male, sotto un cielo parallelo che riversa lacrime, le stesse, sull’agnello e sul suo carnefice. Qui Neige Sinno, prix femina 2023, sceglie di non restare sul rigo pulito della finzione, del possibile, del verosimile, ma si posiziona in quello della testimonianza: quello che è successo e basta, senza disclaimer, senza dover avvisarci che tutto ciò che sta raccontando è vero. Anzi il contrario. Tutto è comunque alterato, perché il ricordo di quello che è accaduto nell’infanzia è materia assolutamente compromessa. I nostri ricordi sono così precari, così esposti ad essere intaccati, screditati e svanire sotto il racconto degli altri. I suoi ricordi d’infanzia che la violenza ha contaminato, anzi ha divorato (“je n’ai presque pas de souvenirs de cette époque en dehors des scénes de viol”). I ricordi bisogna difenderli con le unghie. La parola della vittima contro quella del carnefice. Sapendo però che, se il suo abusatore non avesse ammesso i fatti, la sua parola contro quella della bambina abusata, nessuno le avrebbe creduto. Perché la verità non è neppure ciò che stabiliscono un processo ed una condanna a nove anni, di cui solo cinque scontati: sta davanti, è quello che il libro cerca di raggiungere o solo sfiorare.

Sinno ci avvisa: tutto questo non è neppure una confessione. Non c’è diario intimo perché lui l’ha sbirciato, l’ha letto con fruizione, e lei l’ha distrutto, ne ha fatto un gran fuoco, era inverno in quella casa sulle alpi francesi che non hanno mai finito di costruire, per sottrarsi a lui, dissociarsi, restare fuori della sua portata. Per essere inaccessibile nonostante tutto, nonostante lui, il patrigno, fosse entrato a forza in tutti gli orifici.

“Mon espace à moi n’est pas dans ces lignes, il n’existe qu’au-dedans”. Questo libro ibrido c’è, esiste, ma solo come una specie di eco dello spazio che sta dentro, dell’io-intimo. “Questo libro non serve a niente”.

Non c’è trasmissione televisiva in cui oramai non ci si sforzi di capire o forse solo voler raccontare la violenza contro le donne con un certo sadismo nei dettagli più sordidi, non c’è post in cui non ci si schieri a favore o contro. A sovrapporre alla scena del crimine, la normalità (un ragazzo normale, un bravo ragazzo, un buon padre di famiglia per il resto), a voler pulire la scena perché abbiamo un disperato bisogno di quella “normalità”. A farci la domanda sbagliata: cosa ha a che fare il torturatore con chi “era” prima, con quei ritratti di famiglia che pure esistono in cui tutto sembra così normale, una famiglia come altre? Ma quelle foto non vogliono dire proprio niente: perché solo lei, Sinno, sa che quella foto, quel giorno nessuno aveva voglia di farsela scattare, nessuno aveva voglia di sorridere, eccetto lui. Qui i fatti e i particolari raccapriccianti vengono dopo, se proprio lì volete sentire, rilasciati con un pudore meraviglioso. Il crimine non è l’aberrazione rispetto a tutto il resto, alla vita normale ma è il resto dell’esistenza, quella normale, la vera aberrazione. “Il n’y a rien à voir, puisque ce qu’on cherche à voir n’est pas de l’ordre du visible”.

Neige Sinno prova a raccontare quello che resta dopo la violenza, nel suo caso abuso infantile, dopo il corpo, quando il corpo resta. Ma cosa resta?

Sinno chiarisce subito che lei non si considera una sopravvissuta (parola abusatissima) in una storia di resilienza e riscatto. Lei non vuole essere la protagonista di una favola moralizzante, in cui bambini vulnerabili imparano a sopportare tutte le angherie perché poi arriverà il lieto fine; in cui il sacrificio è continuamente sublimato. Quello che resta sta tutto dentro, gli abusi, tutte le volte, da quando aveva sei anni, o prima, vanno avanti e dietro nella testa. Tutte le stanze della casa, dalla cantina alla soffitta, un odore, quella macchia sulla moquette, le frange del copriletto color mostarda. Tutto pur di non pensare. E poi tutte quelle altre volte in cui la violenza si esercitava ad ogni piega del linguaggio, ad ogni forzatura, chiamami papà, dimmi che mi vuoi bene, e i nomignoli leziosi (come nuovi nomi che avrebbero dovuto cancellare tutto il resto). In vista dell’unico gesto possibile: ricucire quel senso che sta sempre per spezzarsi una volta e una volta ancora in una compulsione mentale senza pausa. Tutte quelle volte battono come un tamburo; lui, il suo patrigno ha sollevato la botola ed è sceso nell’anima con “gli stivali di piombo”. “Come se il cieli fossero una sola campana e l’essere, un unico orecchio, e io, e il silenzio, una razza sconosciuta, naufragata, solitaria, quaggiù”, continua la poesia di Emily Dickinson. Negli incubi lui continua ad inseguirla per violarla ancora e ancora. E anche quando non c’è, come in un film di Lynch, lui è là, da qualche parte, pronto ad entrare in scena. Ma c’è qualcosa in lei, in Sinno, che non capitola, che tiene testa: ho preso la parla, ed andrò fino alla fine. “Rien ne finit vraiment”.

Niente finisce, Sinno rivendica la sua condizione di vittima. “Je ne suis pas sauvé”. La letteratura non è salvezza. Scrivere allora non è nemmeno una confessione, uno sfogo, ma è scrivere attaccando la scrittura, afferrarla per le corna, e rivoltarsi contro, perché anche il racconto di quello che è stato, della abominevole violenza subita, significherebbe raccontare quello che lui, il patrigno, ha scelto, il destino di vittima che le ha imposto. Quel destino che lei non ha scelto, non ha voluto, non ha creato, ha solo subito. Anche il romanzo che si sta scrivendo è allora un atto estremo dell’aggressore, una sua propaggine (lui le aveva perversamente suggerito “dovresti raccontare quello che ti ho fatto, è interessante, è un’esperienza che non capita a tutti”). Quello che resta dopo è ancora la volontà dell’aggressore, la forza estrema del suo gesto di dominio.

Lo sforzo non è mettersi nei panni della vittima, ricordare per caso di essere stata anche tu “vittima”, quella volta quando quel ragazzo per il quale avevi perso la testa ha spento tutte le luci nel locale ed ha abbassato la serranda e tu hai attraversato il buio, alzato la saracinesca con una forza che chissà da dove proveniva. Non è una reminiscenza soft che mette in moto qualcosa. Non è mettersi nei panni dell’altro. No: è averlo vissuto, tenerlo chiaramente e ossessivamente dentro, non fare passare un giorno senza chiedersi perché e non capire, perché neanche le foto, i ricordi personali ed intimi servono a capire davvero. È quando Sinno scrive mi ha fatto mettere a quattro zampe per sodomizzarmi, e tutto il resto sbiadisce, e il racconto potrebbe interrompersi qui.

È essere vittima (perché non si finisce più di essere vittima) e provare a mettersi anche nella pelle del torturatore. È cominciare il romanzo e il ritratto del proprio patrigno su un pene in erezione che entra nella bocca di una bambina. Non aggiungere altro, non arricchire il ritratto di mille dettagli, di tutte le volte. È un brandello della confessione del colpevole che dice che c’era dell’amore, che cercava di fare in modo che anche lei (la bambina) provasse piacere. Quando chi ti insegna a baciare con la lingua è chi dovrebbe farti da padre.

Perché l’ha fatto? Ce lo chiediamo tutti, ogni volta. Sinno scrive: “on viole pour exister”, l’ha fatto per esistere, è un atto di potere: marchiare l’altro a vita, per danneggiarlo e dannarlo. L’ha fatto perché “poteva”, perché la società accetta la violenza come forma di difesa maschile. “Ils violent parce qu’ils peuvent, parce que la société leur donne cette possibilité »

Per Sinno capire passa finalmente attraverso la letteratura e la scrittura allora, senza che la scrittura sia terapeutica. Passa soprattutto attraverso rimettere tutto in gioco: le leggi, i processi e la letteratura stessa. La bella letteratura, quella che si tiene nelle sfere alte, nella sua prigione d’avorio, protetta dallo stile, dal linguaggio e dagli imperativi estetici. Quella rispetto alla quale una confessione, una pagina autobiografica sono poca cosa, un genere inferiore (inferiore come la vittima), un sottoprodotto. Quella che cerca di imbellire i fatti, di usare del tatto, filtrare la banalità e volgarità del quotidiano. “Faire de la beauté avec de l’horreur, est-ce que ce n’est pas tout simplement faire de l’horreur?” L’arte deve toccare il midollo della vita e moltiplicarsi, perché la sua storia non sia solo la sua.

I criminali come Humbert-Humbert di Lolita hanno bisogno di raccontarsi la loro verità (per il patrigno di Sinno che un tempo i rapporti incestuosi erano normali; che anche lui è stato abusato da bambino) per sopravvivere, per giustificarsi, per andare avanti, anche se andare avanti vuol dire rimanere immobili, sprofondati nelle proprie turbe e fantasmi e compiere il male. Raccontarsi che è stata tutta colpa di lei, è stata Lolita, la ninfetta, a sedurlo. Sinno ci apre gli occhi e si sofferma su quanto Lolita sia assente dal romanzo: non c’è, la vediamo sempre attraverso gli occhi del suo predatore. Dove sono le vittime delle violenze? Le vediamo sempre attraverso gli occhi dei cronisti, quelli dei familiari, e quando non ci sono più perché sono state ammazzate, è come se non ci fossero mai state. Sinno sa che “je n’ai jamais existé pour lui”. L’omissione della vittima nelle carte del processo che riportano le dichiarazioni del patrigno è insostenibile.

Eppure, a un certo punto la voce di Lolita si sente: Cretino, essere immondo, ero fresca e pura, guarda che cosa mi hai fatto! Humbert-Humbert quella voce da qualche parte la sente, allora l’abbraccia, la culla, la accarezza la sua bambina e nella sua immobilità si spacca qualcosa prima che quel barlume di tenerezza disinteressata non tardi a deturparsi, a trasformarsi in desiderio, che tutto distrugge. Perché allora quelle copertine allusive con la ninfetta che ancora circolano? Perché continuare ad essere ambigui?  E se Nabokov avesse raccontato quello che ha fatto, se il crimine di Humbert-Humbert fosse stato lui a commetterlo, il suo romanzo sarebbe stato comunque un’opera d’arte?

Mettere tutto in discussione allora. La violenza, l’abuso di minori (crimine prescrittibile, scarsamente denunciato e perseguito) è un crimine che può avere delle attenuanti, che può essere davvero più o meno grave, e a seconda dei casi, portare a degli sconti di pena? O è un crimine relativo (relativo alle circostanze) ma assoluto e basta, che va punito con il massimo della pena? E il consenso, la cui mancanza bisogna dimostrare? E quel costringere la vittima di violenza a rivedere in diretta al processo il video della violazione, e sentirsi chiedere perché non ha urlato, perché non ha reagito con un morso?

Un bambino non può aprire e chiudere la porta del consenso, non arriva alla maniglia, è fuori della sua portata.

Qual è allora la domanda che dobbiamo farci? Sinno non si chiede quanto siano diversi, lei e il suo aggressore, ma piuttosto quanto sono simili, l’agnello e la tigre. “Celui qui créa l’agneau t’a-t-il fait aussi ? si chiede William Blake. Perché la violenza ha sconvolto la vita del patrigno tanto quanto la sua. Lui l’ha portata nel buio e lì sul buio si ritrovano, contaminati l’uno dall’altro, fino alla fine. Costretti a sentire sotto le dita di una carezza, il confine tra bene e male.

Silvia Acierno

Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla