Pensare, pensare dobbiamo, Donna Haraway
Mi capita di fare dei riquadri, dei ritagli di diverse immagini con cui nel tempo ho presentato dei testi di critica, associandoli a delle fotografie. E mi rendo conto di come quelle immagini, nonostante il tempo e lo spazio diversi in cui sono state confezionate, foto scattate in strada da me, immagini trovate in rete, e parole mie o altrui, siano legate. Da una frase che fa da ponte, da un autore che porta naturalmente verso un altro autore, anche solo un colore che ritorna nelle sue diverse tonalità o un oggetto che ritorna. A costruire un’immagine d’insieme che non è il risultato della somma delle singole parti, ma quel legame con quello che c’era e quello che verrà dopo, presente già in ognuna di esse. Come oggetti che si rifrangono, creando ombre da scavallare, ombre che non sono duplicati, ma interferenze e moltiplicazioni. Risignificazioni. L’idea della rifrazione non è mia ma di Donna Haraway, questa biologa coraggiosa che ci insegna a guardare la nostra era in modo nuovo. E mentre osservo gli screenshot di immagini che stanno così bene assieme, scusatemi la leggerezza, ma penso alla critica letteraria.
Qualche settimana fa, Matteo Marchesini su Snaporaz (“Anti fascette” uno e due) ragionava attorno al mondo dell’editoria, e dei best-sellers. Come nei suoi precedenti testi sulla critica letteraria, Marchesini continua a muoversi in una società decadente e populista, popolata da editori senza scrupoli, scrittori disonesti che sono la parodia di loro stessi e falsi miti del passato. L’apocalisse culturale è alle porte anzi ci stringe già nella sua morsa. E il critico-intellettuale si strugge dietro l’idea di una letteratura incontaminata, senza macchie (niente a che vedere con quest’orrenda cultura di massa) eppure noi sappiamo bene che nessun organismo neanche un artefatto culturale è assolutamente sterile. In “Antifascette”, Marchesini cercava di distinguere i grandi scrittori come Balzac dai “falsi” eredi; alla ricerca dei “veri” eredi, tipo il vero Balzac del Novecento sarebbe (il condizionale in un certo tipo di critica è poco usato) anzi è l’americano Francis Scott Fitzgerald. Ovviamente l’ambiente letterario-editoriale italiano è in “degrado”, aggiunge Marchesini; il “caso letterario” che analizza sono I giorni di vetro opera di Nicoletta Verna. Ma questo ora non mi interessa. Mi interessano le parole che Marchesini usa, per qualificare, anzi squalificare una certa letteratura: “donne vessate dai nomi esotico-bizzarri, e almeno nell’intenzione fiabeschi; viscere, gravidanze, aborti, crocifissi adorati e profanati, riti da fattucchiere che esigono la cucina di piatti regionali misti a mestruo; macchie di vago espressionismo orecchiato a scuola, e spezie linguistiche dialettali da manifestazione pro loco sparse su una lingua che sta tra il letterario-sostenuto e il giornalistico”. Più che parole sono un concentrato di veleno. Un veleno anche contro una certa letteratura che si interessa di vissuto femminile; ripeto, aborti, gravidanze, fattucchiere, scrive lui. Seguendo la scia di una certa critica che ha radici nel passato, una critica stantia in cui il critico giudica, smantella, distrugge in nome di un alto ideale di letteratura, il canone (ma può essere anche un anticanone) che solo lui custodisce. Nessuna sorpresa. In Italia pensiamo ancora che la critica sia un affare da pochi, di erudizione, da filologo, chiusa nel dipartimento di italianistica o linguistica. È facile imbattersi in dichiarazioni del tipo se non hai letto Balzac, Baudelaire o Dostoevskij (sempre gli stessi autori), non puoi capirci niente. E rimpiangiamo ancora Debenedetti, Fortini, Lavagetto, e qualche altro critico di professione. Ovviamente tutti uomini, ma ça va sans dire. E come scrive Francesca Serra, facciamo un fioretto, meglio non dirlo “per non essere tacciate di far parte della famosa cultura del piagnisteo e del risentimento”.
Continuo a chiedermi cosa sia la critica letteraria. Pensare, pensare, dobbiamo. A cosa serva parlare male di un libro che non ti è piaciuto. Perché non citare i libri che per te valgono solo la pena, concentrarsi su quelli e basta.
In un articolo di qualche tempo fa (Susan Sontag) avevo fatto un po’ di storia dell’interpretazione letteraria in bilico costante tra contenuto e forma, plot e stile, a stabilire in modo alquanto sterile cosa venga prima in una piramide o gerarchia che ha strutturato malamente il nostro modo di ragionare. Poi avevo invocato Susan Sontag, questo qualche anno fa, quando Sontag era ancora un’autrice di nicchia qui in Italia, prima che traducessero la biografia di Moser e che Nottetempo rieditasse le sue opere. In quel saggio illuminato che è Against Interpretation in cui Sontag sposta l’asse, si schiera, lei che ha fatto critica per una vita, contro l’interpretazione, ovvero contro l’ermeneutica, quel gesto critico che vuole spiegare, decifrare l’arte, e finisce per riprodurre, uno specchio. Un gesto cannibale. Sontag ci invita ad usare altri sensi per analizzare un’opera, l’erotismo, una specie di piacere. Un’apertura. “Our task is not to find the maximum amount of content in a work of art …what is important now is to recover our senses. We must learn to see more, to hear more, to feel more”, scrive Sontag. Fermarsi al gesto della lettura, dell’esperienza (a work of art encountered as a work of art is an experience, not a statement”), all’” excitation”. Tattile, acustico, gusto, un’intimità tra sconosciuti.
Il lessico femminile (questo lo dicevo in un altro articolo) è una cosa seria, non una granola studiata a tavolino per fare vendite, una ricetta da fattucchiera come pretende Marchesini. È provare a cercare un filo nella matassa dell’espressione artistica firmata dalle donne. “È importante capire quali idee usiamo per pensare altre idee”, ci dice Haraway.
Cos’è allora la critica letteraria? Cosa importa davvero? Berardinelli, in un articolo sul Foglio ribadisce: la critica è critica. Ovvero deve criticare.
Nel suo saggio Chthulucene, Donna Haraway ci dice di guardare il mondo con altri occhi. Di restare in contatto con la vita e la morte, con il vivente in forme responso-abili, creando e rafforzando connessioni, parentele, legami intraspecie e con le altre specie, capaci di generare nuove abilità e risposte. Fare kin, fare parentela. Basta con la retorica autoindulgente dell’apocalisse, o con sogni di un futuro idilliaco in cui i problemi si risolveranno e noi saremo felici e di nuovo salvi; non dobbiamo fare altro che vedere il danno, ma vederlo davvero, il danno che l’atropocene o capitalocene hanno prodotto, e “restare con il problema”, “staying with the trouble”. Noi con-diveniamo con il mondo, non preesistiamo. È il corpo celeste di Ortese. Non siamo il post-umano, ma semplice compost, humus, terreno e umido da cui proveniamo e a cui torniamo. Leggete questo saggio assolutamente per seguire questa fantastica biologa nei suoi argomenti. Qui ve ne parlo perché leggendola mi ha spinto a pensare alla lettura e alla critica come ad una rete di parentele, di connessioni. Se bisogna cambiare la narrazione della Terra a favore di una narrazione multispecie, basta con quella in cui c’è un unico attore reale, allora bisogna cambiare anche la narrazione della narrazione.
La lettura crea una prima connessione, una identificazione con l’autore o con uno o più personaggi, ci fa rivivere delle esperienze, ci regala soluzioni, o semplicemente occhi diversi per guardare un problema comune; la scrittura, aveva già creato una connessione dello scrittore con la realtà che racconta e riproduce, con quel luogo che custodisce e che trasforma in una storia; la critica letteraria dovrebbe moltiplicare queste connessioni, non accendere un cero ognuno davanti al proprio altarino di scrittori favoriti, attenti ad ogni profanazione ed espropriazione. Lavorare alle connessioni (che sono molto più ampie che le interdisciplinarità), a intrecciare le storie, più che alle disconnessioni, alle rotture, a parcellizzare, ed esaurire. Un critico è anche uno scrittore implicito (su questo Marchesini ha ragione) ed è necessariamente in quell’humus che è la sua bios che cercherà le connessioni (in quell’ “umidiccio e volgarmente autobiografico di parecchia critica recente” di cui si lamenta Marchesini).
Lavagetto, altro critico purista, citato da Marchesini, con il solito disprezzo che passa per ironia e cinismo avrebbe detto a proposito di queste mescolanze, “un pastiche arlecchinesco, riciclandosi in veste di esperto di gender o magari di orecchiante delle neuroscienze”. Kin, dice Haraway; “amicizia narrativa” dice Cavarero. Inselvatichiamo la critica letteraria. Contaminiamola!
Silvia Acierno
E tu cosa ne pensi?