Beati gli inquieti di Stefano Redaelli è un libro che sarebbe un peccato lasciarsi scappare. Audace ma anche spiazzante, un elaborato mosaico di stili e storie che hanno come comune denominatore un tema – quello della pazzia – a cui oggi, forse, vengono associati ancora non pochi stereotipi. L’autore credo (è questa la percezione che si ha leggendo) avesse come obiettivo proprio quello di abbattere, o quantomeno cercare di confutare, parte di questi stereotipi.

Il protagonista, Antonio, è un professore universitario che decide di farsi ammettere come paziente in un centro di riabilitazione psichiatrica, così da poter studiare da vicino la follia. Antonio, infatti, sente la necessità di rispondere ad alcune domande che, da tempo ormai, lo tormentano: “Dov’è finita la follia? Perché nessuno frequenta i folli? Si può guarire dalla follia? Che cos’è la follia?”.

La sua indagine non si limita alla superficie, ma va a fondo, toccando con mano la storia e la vita dei pazienti. Ogni personaggio, infatti, affronterà i propri mostri e li racconterà ad Antonio, il quale li ascolta con un’attenzione alla quale nessuno di loro è più abituato. Antonio stesso si troverà dinanzi a risposte inattese, rendendosi conto che, in realtà, persino le domande dalle quali era partito erano sbagliate. Angelo e i suoi test dell’FBI, Cecilia con le poesie nascoste nel ventre, Carlo e Simone con la loro amicizia silenziosa e i loro demoni, la dolce ingenuità di Marta, intatta nonostante la sua storia brutale, ognuno aiuterà Antonio a scoprire parti di sé che non credeva neanche esistessero.

Non mancano riflessioni di stampo più filosofico e pirandelliano – cos’è la follia se non la libertà di poter fare e dire ed essere chiunque si voglia? I matti sono loro o siamo noi, prigionieri di un sistema sociale e culturale che non ci permette di essere noi stessi fino in fondo? –  e rimandi alla sfera religiosa: lo stesso titolo è un riferimento esplicito alle beatitudini canoniche del Vangelo. “Beati gli inquieti” ovvero i matti: “Dateci una mano, se ci amate. Siamo malati. Siamo troppo sensibili, troppo deboli, troppo pacifici”.

È una storia non facile da raccontare, eppure l’autore ci riesce e lo fa con estrema cura. Lo stile è peculiare perché mischia insieme prosa, poesia, testi teatrali e persino una “Guida alla creatività per geni”. Cos’è lo capirete leggendo.

Lo consiglierei a chi ha voglia di lasciarsi trasportare senza pregiudizi né stereotipi all’interno della Casa delle farfalle, di incontrare i suoi pazienti, accettarli per come sono, con le loro diverse follie e credenze e illusioni, con le loro storie. È un libro per chi non ama separazioni nette tra i generi, per chi è pronto a riflettere su cosa significhi davvero essere folli: liberi o ingenui? Non esistono, forse, risposte definitive.

È certo però che questo libro porta a chiedersi quali siano, davvero, le domande.

Margherita Insalata