Martire della società contemporanea? Vittima dell’omofobia di un’Italia culturalmente arretrata? Capro espiatorio della massificazione consumista che sconvolse il Novecento cancellando le tracce di una cultura millenaria sostituita dalla civiltà del consumo, dell’omologazione e della televisione? Certamente tutto questo. Ma per favore, non fu il santino che certa marca intellettuale tiene sul comodino, agnello sacrificale che ancora irraggia certo mistico ma tenero fulgore.
Nella sua vita fu uno scandalo vivente, e “scandalo” è la parola che, riecheggiata dal Cristo del Vangelo secondo Matteo, riflette la vita del poeta-regista che volle la propria madre sulle scene a rappresentare la Madre del Verbo incarnato. Potrebbe definirsi un artista popolare, quasi popolaresco per la sua passione per i ragazzi di borgata (con cui giocava a calcio, sport di cui era innamoratissimo) di cui cantò le non eroiche gesta in romanzi come Ragazzi di vita o Una vita violenta. O qualcuno direbbe populista: certo amava il popolo, ma a bordo della sua Alfa GT, da cui abbordava i “regazzi di vita”, i marchettari della stazione Termini a Roma. Abitò il ghetto ebraico e il Pigneto che ispirò il film Accattone, ma finì la sua vita nel più alto-borghese Eur. Insomma, il popolo lo frequentava, ma con certo aristocratico distacco di sicurezza.
Ma fu veramente contraddizione? Chi parlava di civiltà massificata dalla televisione non disdegnò certo il palcoscenico Rai coi suoi interventi e l’inizio di certa tv gossip, pensiamo a “Comizi d’amore”. Forse era inevitabile per chi fu contraddittorio e combattuto fino in fondo, come già nelle Ceneri di Gramsci: “Lo scandalo del contraddirmi, / dell’essere / con te e contro te; con te nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere”. 
Eppure, s’immerse nella realtà come nessun altro: non solo a Roma. Famosi sono certi viaggi in Africa con l’amico di sempre Alberto Moravia, alla riscoperta delle radici preoccidentali e precristiane del mondo. E come nessun altro fu vilipeso: come quando inventarono una rapina compiuta dallo scomodo intellettuale in una desolata stazione di benzina: Pier Paolo per minacciare avrebbe usato una pistola con proiettili d’oro! Un particolare pop e kitsch che nel tentativo di condannare il poeta in realtà autocondannava l’accusatore alla tragicomica dimensione di arendtiana “banalità del male”.
Fu uomo assetato di vita, di una “disperata vitalità” come diceva di sé. Dalla Bologna natale alla morte nell’idroscalo di Ostia la sua vita fu impressa dalla dilaniante luce intellettuale e dai fantasmi di un eros inquieto. Nel Friuli dell’infanzia conobbe i primi ardori erotici verso i ragazzi del lungofiume, come raccontò nel romanzo Amado mio, quella materna Casarsa in cui fu eletto “maestro esemplare” nella scuola in cui insegnava (ai suoi alunni parlava del mostro Userum per insegnare le desinenze delle declinazioni latine).  Poi a Roma, la “capitale del futuro” in cui visse “come un gatto del Colosseo”, nel modo disperato e maudit di chi gira “per la Tuscolana come un pazzo”. Abitò la notte dove conobbe i marchettari della stazione Termini, ma tra gli altri conobbe Riccetto, il Ninetto dai ricci ellenici che lo affiancò in alcune pellicole.
Fu poeta, narratore, regista di teatro e cinema, attore nei suoi stessi film, critico, linguista, polemista. Oggi scelgo alcuni versi da Poesia in forma di rosa, una raccolta complessa e irregolare ma, come il fiore del titolo, dotata di una segreta geometria frattale. Dal Poema per un verso di Shakespeare estraggo questi pochi versi:

E amo la morte dei morti, quella che laggiù
Nello sconsolato Appennino
Testimonia il sopravvissuto cippo divisorio di proprietà!
Barocco! Ottagonale! Con le scritte su pergamena
Di marmo arrotolato come orecchie a sventola!
L’uomo non potrà mai adattarsi alla Società!

Versi incantatori, che contengono un messaggio che le sensibili antenne del poeta captano in un ambiente lontano nello spazio e senza tempo. Un cippo divisorio di proprietà, testimone di lunghi secoli feudali dell’Italia preindustriale, a cui il poeta non può adattarsi. L’Italia decentrata e rurale, appenninica, dove aleggia lo spirito dei morti. L’Italia delle ultime famiglie di memoria contadina, delle “primavere intorno alle scorate officine” del sottoproletariato e dei dialetti di cui il poeta si ricordò nel suo bellissimo, filologicamente acuto, Canzoniere italiano
Il corpo maciullato di Pasolini all’idroscalo di Ostia resta feroce testimonianza di anni bui di lotte politiche che dilaniarono il tessuto socio-ideologico italiano. Ma anche retaggio di un paese culturalmente arretrato. La sua immagine, ripetuta persino nei graffiti dei vicoli e non priva di un certo kitsch estetico-intellettuale, è un richiamo a non dimenticare: Pasolini resta, pur nei limiti di chi ebbe a necessariamente contraddirsi, il più lucido, il più tormentato e il più profetico degli intellettuali che abitarono l’Italia che usciva dall’ultima guerra per tuffarsi negli anni di piombo.

Fabio Barissano