Parlare dell’opera Poesia in forma di Rosa di Pier Paolo Pasolini è un compito complicato e intrigante. Questa raccolta, pubblicata nel 1964, racchiude la confessione – spesso cruda e straziante – della sua solitudine e della persecuzione subita durante il periodo successivo al processo del 1963. In particolare, nella sezione Pietro II, Pasolini racconta dell’assurda condanna ai film La ricotta e Rogopag per “vilipendio della religione di Stato”. L’autore è accusato dal tribunale di Roma di aver rappresentato la passione di Cristo “dileggiandone la figura, i valori (…) e tenendo per vili simboli e persone della religione cattolica”. Una sentenza che infligge a Pasolini una pena di quattro anni di reclusione, ma che, successivamente, viene annullata per via di un’amnistia.

L’autore realizza una raccolta intima, un’autobiografia confessionale, nella quale organizza le sue esperienze con un andamento a tratti diaristico, a tratti febbrile, a tratti freddo e ironico. «Racconta punto per punto i progressi del mio pensiero e del mio umore» osserva in un’intervista, e nei testi emerge un io poetico forte e tragico, che si sente come un reietto perseguitato dalla società. Pasolini si dichiara «schiavo malato», una «bestia» che vaga per il mondo come un mostro di fango, abbandonato dalle amicizie e dalla stessa poesia (La mancanza di richiesta di poesia). In questo spazio poetico l’autore confessa la propria condizione di emarginato e le sue difficoltà nel trovare un appartamento a Roma: «Uno a cui la Questura non concede / il passaporto – e, nello stesso tempo / il giornale che dovrebbe essere la sede / della sua vita vera, non dà credito / a dei suoi versi e glieli censura – / è quello che si dice un uomo senza fede, / che non si conforma e non abiura: / giusto quindi che non trovi dove vivere. / La vita si stanca di chi dura. / Ah, le mie passioni recidive / costrette a non avere residenza!» (La ricerca di una casa).

Il paesaggio primaverile che emerge nella raccolta, sebbene sia illuminato dal sole e prometta una rinascita della natura, è un cumulo di fango e tuguri. Il poeta è proiettato nei quartieri del basso proletariato, nella polvere di una campagna seccata dal sole. Osserva una città intravista dai finestrini di un taxi o dalle vetrine di un bar di periferia: «i resti del vecchio Pasolini / sui profili dell’Agro…».

Il significato del titolo della raccolta è di difficile interpretazione e il titolo stesso, forse, racchiude in sé l’interpretazione più profonda della sua scrittura. Poesia in forma di rosa potrebbe infatti acquisire molteplici sensi a partire dall’immagine letteraria e religiosa legata alla rosa, che nella tradizione corrisponde a una simbologia di femminilità e bellezza. Nell’analisi psicologica, scrive Jung, rappresenta l’archetipo della madre. È il fiore consacrato alla dea Iside, personificazione della natura generatrice e simbolo di rinascita. Nei culti pagani e più tardi nella tradizione cristiana è allegoria della Vergine, Madre di Dio, immagine della Madre misericordiosa per tutti gli uomini. A livello alchemico è simbolo di protezione. Angela Molteni evidenzia come la simbologia della rosa sia ripresa anche a livello visivo all’interno del testo pasoliniano: i versi di Nuova poesia in forma di rosa sono disposti nella forma di otto petali sfogliati, immagine che nella tradizione alchemica è simbolo rigenerativo. Probabilmente suggerisce come il desiderio dell’autore sia quello di compiere un racconto sulla rinascita, espressa sia a livello formale – poiché il poeta rigenera la propria poesia attraverso il nuovo impulso del cinema –, sia a livello tematico, in quanto Pasolini usa questo spazio per confessare le proprie ossessioni.

Proprio in quegli anni, infatti, Pasolini approda nella cinematografia e il suo operato poetico rispecchia, attraverso una netta variazione di forme espressive e di registri, le nuove esperienze in cui l’intellettuale incorre. Per Pasolini il cinema è una nuova lingua, al contempo visiva e orale, una lingua primitiva, ancestrale, sulla quale si fa calco e si rigenera la sua scrittura, portando alla creazione di una scrittura della realtà, che comporta una pronuncia molto più orale e quotidiana, un distacco da forme metriche troppo rigide, un’esplosione di forme e stili (poemetti in terzine, pagine di diario in versi sciolti, calligrammi in forma di croce o in forma di rosa, pagine di un’intervista), e un più marcato utilizzo di elementi tratti dalla realtà linguistica quotidiana.

Dal punto di vista tematico la rosa della rigenerazione rappresenta invece la figura accogliente della propria madre, con la quale Pasolini ha sempre avuto un rapporto strettissimo. A lei sono dedicate la maggior parte delle sezioni e l’opera intera. In lei è ricercata la causa della sua sessualità (Supplica a mia madre). L’autore svela, attraverso un approccio psicanalitico e psicologico, il complesso edipico che li lega e che ha generato in lui quella “diversità sessuale” che lo ha sempre condannato alla solitudine.

«Sono migliaia. Non posso amarne uno. / Ognuno ha la sua nuova, la sua antica / bellezza, ch’è di tutti: bruno / o biondo, lieve o pesante, è il mondo / che io amo in lui – ed accomuno, / in lui – visione d’amore infecondo / e purissimo – le generazioni, / il corpo, il sesso. Affondo / ogni volta – nelle dolci espansioni, / nei fiati di ginepro – nella storia, / che è sempre viva, in ogni / giorno, ogni millennio. Il mio amore / è solo per la donna: infante e madre. / Solo per essa, impegno tutto il cuore. / Per loro, i miei coetanei, i figli, in squadre / meravigliose sparsi per pianure / e colli, per vicoli e piazzali, arde / in me solo la carne. Eppure, a volte, / mi sembra che nulla abbia la stupenda / purezza di questo sentimento. Meglio la morte / che rinunciarvi! Io devo difendere / questa enormità di disperata tenerezza / che, pari al mondo, ho avuto nascendo». (La realtà)

Se con la madre l’autore conserva una relazione d’amore spirituale e affettiva, è condannato a vivere relazioni puramente carnali con schiere di giovani uomini. Proprio dall’amore morboso che lo lega alla figura materna nasce l’angoscia della sua vita. La madre sembra insostituibile e il poeta desidera solo rapporti ossessivi e passeggeri.

«Pendii, i colli, l’erba millenaria, / le frane di fiori o di rifiuti, i rami secchi / o lucidi di guazza, l’aria / delle stagioni con i loro muretti / vecchi o recenti al sole…tutto questo / nasconde me e (ridete!) gli amici giovinetti / in cui nessun atto è disonesto / perchè è senza tragedia il loro desiderio: / perchè il loro sesso è integro, fresco. / Non potrei, altrimenti. Solo se leggero, / dentro la norma, sano, il figlio / può farmi nascere il pensiero / scuro e abbacinante: così solo gli somiglio / nella verifica infinita di un segreto / ch’è nel suo grembo impuro come un giglio. / E mille volte questo atto è da ripetere: / perchè, non ripeterlo, significa provare / la morte come un dolore frenetico, / che non ha pari nel mondo vitale… / Non lo nascondo, se nulla ho mai nascosto: / l’amore, non represso, che mi invade, / l’amore di mia madre, non dà posto / a ipocrisia e viltà! …» (La realtà)

La manifestazione di questo dramma edipico si attua nel piano privato e, come nella tragedia greca di Sofocle, si apre alla sfera sociale e comunitaria. I limiti della letteratura diventano lo spazio ideale per presentare la propria sessualità. Essa si configura come una libido estremamente dilatata, accanita e spavalda, in cui l’autore cerca continuamente di conciliare il sacro e il carnale. In un combattimento contro se stesso, egli perde, si gonfia di colpa, sogna una purezza impossibile. Nei primi anni del Novecento, la percezione dell’omosessualità poteva essere alquanto variabile, l’atteggiamento prevalente oscillava fra una prima registrazione in termini diagnostici del fenomeno e una diffusa convinzione che si trattasse di un difetto morale della persona, che andasse in qualche modo nascosto, sanzionato e represso. La sessualità del poeta presenta un desiderio vitale, violento, consumato nella furtività della notte, del quale il poeta non riesce veramente a pentirsi. Questa tensione diventa quindi il tema portante della raccolta e Pasolini sviluppa un testo bifronte che presenta da un lato una preghiera laica, un miserere silenzioso e sconsolato, e dall’altro un’accusa urlata e graffiante a un immaginario interlocutore borghese: «Eccomi nel chiarore di un vecchio aprile / a confessarmi, inginocchiato, / fino in fondo, fino a morire. / Ci pensi questa luce a darmi fiato, / a reggere il filo con la sua biondezza / fragrante, su un mondo, come la morte, rinato». (La realtà)

L’omosessualità del poeta si configura come diversità assoluta e inconciliabile, e la confessione è una mossa retorica per ribadire questa non omologazione rispetto ai principi razzisti e bigotti del mondo borghese. Pasolini proclama il suo essere profondamente anticonformista, eroe di una battaglia contro la borghesia, il cui senso nella sua intimità entra in crisi. La condizione privata di un uomo diventa ribellione universale: Pasolini chiama una rivoluzione, un’alleanza solidale fra emarginati di ogni categoria contro i pregiudizi borghesi. Ma l’ultimo elemento che emerge è la rabbia, lo sconforto di chi, in fondo, sa di non avere la forza di reagire veramente. Allora il poeta si ritira, sconfitto, e cerca di purificarsi attraverso il ricordo dell’immagine della Madonna, serena e salvifica, di cui la rosa è simbolo.

Cecilia Nebosi

Leggi la presentazione di ’900 italiano a cura di Enrico Bormida e Andrea Borio