Un lunedì di pioggia – autunno – a Baltimora, Maryland, vicino a Wyman Park: sentieri che serpeggiano tra gli alberi, panchine su cui, con il bel tempo, fermarsi a riposare, lampioni dalla foggia antica – non stupirebbe il passaggio di un calesse, tra biciclette e monopattini.

C’è un gruppo di edifici, là dove sfocia la 33sima Strada, poco più a sud del punto in cui Charles Street incrocia University Parkway. Il grande complesso della Johns Hopkins University: è qui che ci troviamo, una città nella città. Palazzi austeri e colonnati, torrette e abbaini. Prati all’inglese, alberi antichi, aiuole fiorite in primavera e poi per tutta l’estate. Ma adesso, appunto, è autunno.

Un’aula in particolare, nell’edificio in cui ha sede il Humanities Institute. La pioggia cola lungo i vetri – qualche studente si volta in quella direzione – inonda le grondaie, scorre lungo la tela impermeabile di ombrelli che da quassù non è possibile vedere, e che verranno chiusi a un passo dall’ingresso, scrollati e lasciati nell’atrio. Impronte bagnate dappertutto. Il cielo colore dell’asfalto, colore del cemento. File di banchi e sedie su cui sono seduti gli studenti. Le luci sono accese: disegnano penombre là dove poggiano le sneakers, scarpe di pelle o ballerine, e intorno a borse e zaini.

Al fondo dell’aula, o al suo principio, dipende dai punti di vista, comunque accanto alla porta, ci sono una lavagna o due, ancora pulite, immacolate, una sedia più comoda e una cattedra. In piedi, o forse seduta, l’insegnante, una scrittrice. Guarda anche lei, almeno per un attimo, con i suoi occhi verdi, il cielo di cemento e i rivoli di pioggia. In quell’istante pensa di avere raccontato la pioggia lungo i vetri – chissà in quale romanzo, non ricorda, chissà se in più di uno – o che vorrebbe farlo.
Colpetti di tosse, lo scricchiolio di suole di gomma sul pavimento umido, lo scorrere di penne sopra i fogli. I corpi dei ragazzi si spostano, si assestano. C’è quel rumore forte della pioggia d’autunno.
Intorno all’Istituto, galleggia Baltimora, un mare di palazzi e strade, automobili e persone, chiese e negozi e centri commerciali, e l’Istituto è un’isola.
Uno degli studenti ha appena scritto il nome dell’insegnante – la prima pagina del nuovo quaderno. Andandogli alle spalle lo vedremmo, guizzi di lettere quasi scarabocchiate. Strizzando gli occhi, riusciremmo a decifrarlo. Sarebbe come il battito di un piccolo cuore.
A-lice Mc-Der-mott.

Oppure potremmo immaginarci altrove, lontano dall’aula, dal lunedì piovoso, dal primo giorno di lezione.
Fuori da Baltimora, quel mare cittadino.
Potremmo immaginarci a Sewanee, contea di Franklin, Tennessee, nella porzione sud-occidentale dei Monti Appalachi, un territorio di rilievi e distese di foreste.

Cosa vedremmo, allora? Un altro edificio, spuntato in mezzo agli alberi, un ampio porticato sorretto da colonne bianche, i muri rivestiti in pietra, alcune sedie a dondolo, un prato verdissimo.
La porta d’ingresso è spalancata – immaginiamo – perciò possiamo entrare. Qualcuno sta parlando, una voce femminile; proviene da una sala in cui facciamo capolino: finestre arabescate e boiseries, un grande tavolo di legno, una ventina di persone sedute lì intorno, taccuini e libri e fogli sparsi. In questo caso, sarebbe piena estate, una mattina o un pomeriggio luminosi, il cielo dipinto di azzurro, neppure una nuvola, e tutti indosserebbero magliette o camicie a maniche corte, pantaloncini, vestiti leggeri. Ai piedi, scarpe di tela o sandali. Dalle finestre, il verde cristallino delle foglie e una macchia di cielo.

La donna, la cui voce ci ha guidati, ha gli occhi verdi, luminosi, capelli corti e scuri venati di bianco, piccole perle ai lobi delle orecchie. Potrebbe avere cinquant’anni, eppure a tratti pare una ragazzina.
Gesticola e sorride, dà il benvenuto a tutti.
“Benvenuti alla Sewanee Writer’s Conference.”
Sarà la loro insegnante durante quel seminario estivo. Due settimane intere – pura meraviglia! – tra i boschi in Tennessee. La luce alle sue spalle pare una mano calda.
Gesticola e sorride, ride. È una risata inconfondibile, parecchio contagiosa, quasi uno scoppio, un’accensione.
Ha pubblicato romanzi bellissimi, uno dei quali, Il nostro caro Billy, ha vinto il National Book Award nel 1998. È stata due volte tra i finalisti del Pulitzer Prize. Ma non è questo quello che sta dicendo, no. Dice qualcosa riguardo alla scrittura: “Siamo venuti qui per parlare di ciò che amiamo di più, di quello che per noi è più importante”.
Anche i presenti sorridono, a quel punto. L’aria si fa più morbida, si scioglie. I corpi, nelle magliette e nei vestiti leggeri, si rilassano, si assestano. Si guardano tra loro, annuiscono, come per dire: “Sì, siamo qui insieme, che fortuna”.
La voce della donna – l’insegnante, la scrittrice – scivola dentro la sala da una parete all’altra, tra le boiseries.
Insegna alla Johns Hopkins University, racconta, ma durante l’estate, ormai da molti anni, si trasferisce a Sewanee con il marito e i figli, e tiene i suoi seminari.
“Mi chiamo Alice McDermott”, dice, anche se i presenti – scrittrici e scrittori, esordienti o meno, giovani ma non solo, non è detto, comunque tutti votati alla scrittura, tutti perdutamente innamorati, ossessionati – sanno benissimo chi sia, hanno letto i suoi libri.
Adesso possono cominciare, e noi torniamo indietro, torniamo sotto il portico con le colonne bianche e le sedie a dondolo, guardiamo il paesaggio.

Una parte di lei – A-lice Mc-Der-mott – rimane in controluce, davanti alla finestra arabescata che inquadra un frammento di una distesa d’alberi e una macchia di cielo perfettamente azzurro, la rappresentazione dell’estate; un’altra è ancora in quell’aula, a Baltimora, sotto le luci accese anche se è pieno giorno, ha appena guardato la pioggia che cola lungo i vetri, pensando che la pioggia, come ogni altra cosa, qualunque cosa al mondo, persino la più piccola, comune o inoffensiva, sia uno spettacolo, un prodigio. Pensando che la scrittura, innanzitutto, risieda nello sguardo, e nel non dare niente per scontato. La pioggia, il sole, i gradini di pietra di una casa qualunque, un foglio di carta appallottolato e poi gettato via, su un marciapiedi. Una tazzina, una pozzanghera, un paio di occhiali. Una mano che stringe una spalla. Una donna, un uomo, una bambina. Una finestra. La luce del mattino. Il sole che tramonta. O il vento, per esempio, con cui si apre uno dei suoi romanzi, Dopo tutto questo:
Uscendo dalla chiesa, sentì il vento che si alzava, sentì le raffiche pungenti di ghiaia e polvere sulle calze e sulle guance, le schegge di sole impazzito negli occhi. Si fermò un attimo sugli scalini di granito, toccandosi la tesa del cappello e l’orlo svolazzante della gonna; sentì il vento correrle su per i polsini e scuoterle le maniche.

Parti di lei si trovano ancora in due Stati diversi, anche se Alice (A-lice) ormai ha smesso di insegnare. E una parte di me vorrebbe essere lì, intorno al grande tavolo di legno, nella luce calda e verde dell’estate, in mezzo ai boschi in Tennessee, o a uno di quei banchi in un giorno di pioggia, un giorno d’autunno, sull’isola della Johns Hopkins University, circondata dal mare della città di Baltimora, per sentirla parlare di scrittura, mentre gesticola e sorride – sorridono anche gli occhi – per sentirle dire cose come:
We look for what the novel says that’s true for us all. We look for us.
Oppure:
We write our own stories in order to continue something that’s indispensable.
O ancora:
Look, artistic inspiration, like religious faith, does not come to most of us with the beating of wings or the leaping of flames or the cinematic, middle-of-the-night aha moment that cuts to an acceptance speech in Stockholm. It comes through long effort, through moving ahead and falling back, through working in the dark. It comes to us in moments of passionate intuition and over long days and nights of painful silence. It arrives in the usual and yet miraculous confluence of ordinary events. It comes and goes. It leaves us in doubt. It is sustained by doubt. It is the work of a lifetime.
Così, seduta al tavolo al quale sto scrivendo queste righe, in questo nuovo inizio del nostro viaggio nella letteratura americana, non mi resta altro da fare che riaprire il libro che ho davanti, What about the baby? – Some thoughts on the art of fiction, nato dalle sue lezioni a Baltimora e dai seminari in Tennessee, e leggerlo una seconda volta, e consigliarvelo.

È come un biglietto d’invito, ricevuto quando meno te lo aspetti, a partecipare a una festa che dura tutti i giorni di tutta la vita, durante la quale ti divertirai, ti annoierai, ti arrabbierai, penserai di andartene ma poi deciderai di rimanere, perché una festa come quella ne vale la pena. Come una cartolina spedita da un posto bello e misterioso – la scrittura – il cui messaggio è: non vorrei essere da nessun’altra parte, ti aspetto, saluti da qui.
Il viaggio ricomincia oggi. Adesso, in questo momento, dal Maryland e dal Tennessee. Ben ritrovati in Americana.

PS:
La mia speranza? Che un editore italiano traduca e pubblichi What about the baby? Speriamo, speriamo, speriamo… Nel frattempo, se masticate un po’ d’Inglese, prendetelo, non ve ne pentirete. E se così non fosse, non importa: ci sono tutti i romanzi di Alice McDermott, ed è più che abbastanza, molto, molto di più.
Elena Varvello
E tu cosa ne pensi?