«Un giorno mi venne in mente che il mondo non si può più raffigurare come nei romanzi di un tempo, per così dire dal punto di vista di un unico scrittore, il mondo era andato in pezzi, e solo se si aveva il coraggio di mostrarlo nella sua frammentazione era ancora possibile dare di esso un’immagine veritiera. Ma non per questo bisognava accingersi a un libro caotico nel quale nulla fosse più comprensibile; al contrario, bisognava escogitare con grandissimo rigore dei personaggi estremi, come quelli di cui in effetti il mondo era fatto, e questi individui bisognava raffigurarli in tutti i loro eccessi, l’uno accanto all’altro e ognuno separato dall’altro».

Diversi luoghi abitano questo prismatico romanzo di Elias Canetti che merita l’esperienza di lettura. La libreria di uno sinologo solitario in cui i libri sono al tal punto gli unici suoi compagni di vita da provare per loro un legame e un’ossessione quasi fisica come se fossero veri e propri esseri umani. A questi può parlare e chiedere consiglio grazie alla grande e preziosa saggezza che essi custodiscono, a quell’unico mondo reale nel quale vale la pena credere, lasciando fuori dalla biblioteca tutto il resto. E qui c’è il professor Peter Kien.

Una cucina di un appartamento dove una governante, gretta e incolta, si sente protetta dai suoi mobili e dalla sua eterna sottoveste blu ma vorrebbe rassettare anche un po’ sé stessa con un ruolo più soddisfacente e così sposa il professore più per il suo presunto conto in banca che per affinità elettive, diventando una sorta di predatore barbarico che si insinua nella civiltà corrodendola dal di dentro: e qui c’è Therese.

La guardiola del palazzo, dove i due vivono, gestita da un poliziotto in pensione dai capelli rossi e dai pugni che ti fanno diventare nero la cui unica occupazione è sbirciare, farsi gli affari degli altri perché sui propri è meglio tacere. Dietro uno spioncino posto in basso all’ingresso della portineria osserva gli inquilini e i loro passi parlanti e bracca quei mendicanti che osano entrare in quello rispettale stabile: e qui c’è Benedikt Plaff.

Poi c’è la vita della Vienna notturna dove la gente che conta poco cerca di crearsi un’oasi di non pensiero e dove regna il truffaldino che avrà anche la gobba a renderlo storpio ma, in nomen omen, accalappia subito il professore rendendolo vittima di diverse disavventure tutte votate a scucirgli soldi per imbastire il suo futuro in America: e qui c’è Fischerle.

Infine c’è il manicomio di Parigi dove il primario, che è il fratello del professore, amministra, come il profeta di un mondo migliore e come il cameriere premuroso attento ai bisogni altrui, esperienze eccezionali che lo arricchiscono perché a suo dire sono le guide migliori per indicarci le ricchezze del mondo ed è a lui che Fischerle, spacciandosi per il professore, manda un telegramma con scritto ‘sono completamente suonato’ che diventa una richiesta di aiuto ma anche un’accurata diagnosi: e qui – verrebbe da dire: suo malgrado – c’è il dottor Georges Kien.

Nel multiforme sistema dei personaggi, e che personaggi!, fin qui visti Canetti si conferma già, in questo suo primo romanzo scritto a trent’anni, un acuto conoscitore di alcune controverse tipologie umane che non facciamo molta fatica a rintracciare nel mondo che ci circonda oggi. C’è chi si immerge in un’esistenza china tutto il giorno su qualcosa che lo coinvolge e lo stravolge, tronfio della sua partecipazione, per le quali è ammirato dagli amici e dall’istituto di frenologia che se ne è già accaparrato il cranio per studiarlo in futuro. Ma gli manca del tutto il contatto con il mondo di fuori, quello vero, il quale – se è vero che va avanti per conto suo anche senza questo ingegnoso essere – sotto sotto solletica, anche se non lo ammette, la natura schiva e laconica di questo solipsismo da camera che quando mette il naso fuori di casa o viene irriso o combina danni.

C’è la governante, anche un po’ badante, che rappresenterebbe il contatto verso l’esterno per la persona a cui bada. Stufa di spolverare ogni angolo di casa (o forse in virtù di questi meriti) pensa di approfittare del ‘vecchio’ e cerca di sistemarsi sposandolo nel tentativo di farsi intestare tutto. Il testamento diventa così il traguardo di un percorso studiato nei minimi dettagli. Ma non si accorge che da qualche parte esistono altri parenti e che quindi la torta, ammesso che ci sia una torta, deve dividerla e che le vere ricchezze di una casa, nella quale si è in fondo poco più di un’intrusa, sono spesso quelle che si hanno sotto gli occhi e che magari qualche antiquario farebbe le carte false pure di averlo.

Poi c’è chi si ricicla in un mestiere da secondino per rifarsi di un mondo che l’ha messo da parte e passa le giornate dentro una gabbia preso dai suoi ricordi di quando con la divisa era qualcuno agli occhi degli altri. Costui ora, anziché addomesticare la sua natura violenta, ne esaspera gli eccessi delle mani e degli sguardi come se dietro ogni angolo ci sia un nemico e come se contro di lui il mondo intero stia imbastendo un costante e nascosto complotto. Ma gli manca qualcuno che sappia leggerne profondamente la carta di identità e smascherarlo o peggio: assoldarlo. Perché, diciamocelo, di queste figure purtroppo c’è sempre mercato.

Poi c’è il classico personaggio che vive di sussidi, condoni e amnistie, quello che tira a campare a spese degli altri, che non si fa mai un esame di coscienza, anche perché gli manca la materia prima, che volontariamente si esilia dal consesso del mondo, vivendo un’esistenza sotterranea con altri scontenti, uscendo dalle fogne in cui è rintanato, concedendosi così qualche fugace uscita nel mondo vero, quando c’è da fomentare disordini o diventare famulo di qualcuno o di una nuova idea che tenti di sovvertire i valori in cui crediamo. Ma questo campione del mondo degli scacchi, che pensa di conoscere già tutte le mosse vincenti, non si accorge che qualcuno più furbo di lui, che è spesso il destino, gli ha già fatto scacco matto.

Infine c’è il parente che arriva da lontano che, come un deus ex machina, inconsapevole delle commedie degli equivoci e degli univoci che spesso ci creiamo, arriva a dipanare la matassa e a dispensare qualche elettroshock.

Auto da fé (Die Blendung, 1935), primo testo di Elias Canetti – scrittore ebreo del ramo sefardita di ascendenza spagnola, nato in Bulgaria, naturalizzato britannico che scrive ne La lingua salvata del tedesco (sintesi perfetta dell’Europa) – e unico romanzo, in quanto la produzione successiva sarà di natura autobiografica e saggistica, colpisce per la sua struttura stratificata e lo stile terso che riverbera una prosa rigorosa. Il lettore spesso ha la sensazione di trovarsi in un altrove, a volte allucinato e a volte onirico, di entrare in pagine decisamente impervie e anche sgradevoli ma che, una volta fatte proprie, riversano fiumi di riflessioni sul comportamento umano. Si avverte il sostrato di bagaglio di letture precedenti di Canetti che vanno dall’antropologia alla psicologia, passando dalla biologia evoluzionistica, con riflessioni che anticipano di molti anni quelle che saranno proprie della psicologia sociale degli Anni Sessanta e oltre.

Ci troviamo dunque immersi in un universo di personaggi, che si muovono secondo le leggi della natura umana, fin dentro le loro menti, negli angoli reconditi che controllano pensieri e azioni. La loro particolarità, a ben guardare, è quella di una funzione cognitiva molto egoistica: tutti infatti interpretano le cose in modo soggettivo e arbitrario come più gli fa comodo e che, in qualche modo, li fa sentire in vantaggio sugli altri, a scapito dell’oggettività. Inoltre ogni personaggio presume di sapere, con una certa arroganza, cosa passa nella testa dell’altro, determinando di volta in volta diverse relazioni di potere tra dominatore e dominato i quali spesso nel corso del romanzo si scambiano i ruoli.

Di particolare rilevanza è inoltre l’aspetto linguistico del romanzo: la capacità di far parlare tutti i personaggi bizzarri all’interno della propria logica delirante e rigorosamente nella propria intonazione. Con questo procedimento letterario Canetti rivela l’influenza di Karl Krauss nell’individuazione di una precisa maschera acustica, indossata la quale il modo di parlare dei suoi personaggi indica le idee e i desideri che li guidano e li accompagna nel parlare uno accanto all’altro senza che questi prestino la minima attenzione a ciò che dice l’altro, presumendone già i pensieri. Troveremo in queste pagine il gergo dei truffatori come il tedesco cartaceo della scienza, frasi quotidiane dal sapore viennese, slogan contemporanei e citazioni letterarie del pensiero orientale, in una continua interazione virtuosistica ma anche opposizione di queste maschere acustiche che ricordano il mito della torre di Babele e che rivelano la disgregazione psicologica e morale dei personaggi.

Questo libro, forse come nessun altro, costringe il lettore ad attraversare dune di esistenze aride senza camminargli accanto, senza offrirgli aiuto a schivare le inevitabili sabbie mobili prodotte da una ragione che ha amputato sé stessa dall’esistenza e si fa propria carceriera. Non c’è nessuna vista panoramica, a debita distanza, sugli abissi dell’uomo perché questi deve sentire fino all’ultimo la minaccia di caderci dentro (o forse ci è già caduto?) Per questi motivi, ragionando sulla irresistibile sgradevolezza del testo di Canetti, il germanista e scrittore Claudio Magris riflette:

«Auto da fé è un libro che non ammette giudizi intermedi: ci sono lettori che vi si riconoscono a fondo, come in un baraccone di specchi deformanti al Luna Park, e che lo sentono come una Bibbia quotidiana, e ci sono lettori che se ne ritraggono sconcertati e respinti. È un’opera eccentrica e bizzarra, che non si lascia inquadrare in uno schema letterario o ideologico preciso, e che perciò si è sottratta a lungo alla comprensione».

Non è mai tardi per avvicinarsi ad un testo come questo che colpisce il lettore, lo diceva Kafka, con un pugno, scuotendolo con violenza dalla sua consueta visione della vita. E forse tutto sta nel suo titolo originale che in tedesco significa: abbagliamento. La perdita momentanea della vista ci permette, subito dopo, di vedere e di vedersi più chiaramente, anche se gli occhi bruciano ancora.

Claudio Musso

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