“La mamma non tornò, come la corrente elettrica […]

Gli ultimi giorni di maggio le bombe precipitarono incessantemente. A fatica Sen lo strappò dalla finestra e lo costrinse a stare al pianterreno con gli altri, i materassi buttati sul pavimento. Accucciato in un angolo, ogni sera Omar ascoltava i compagni litigare per il posto:il più sicuro esa quello della porta, fra gli stipiti, lo volevano tutti. Gremita di corpi, la sala odorava come la macelleria in cui un paio di volte all’anno lo portava sua madre, quand’era più piccolo, a comprare il macinato per i cèvapi- neanche l’acqua era tornata”.

Mentre sto scrivendo, proprio ora, nella mia terra che è anche la terra di Rosella e di molti altri che portano la Calabria nelle vene, quarantacinque migranti sono morti durante uno sbarco a Cutro (Crotone). I cadaveri sono stati trovati sulla spiaggia in località Steccato. L’ultimo ritrovato è stato quello di un bambino di due anni. L’imbarcazione, partita dalla Turchia – su cui viaggiavano migranti in arrivo da Iran, Afghanistan e Pakistan – sarebbe finita contro gli scogli a causa del mare agitato, a poche decine di metri dalla riva. Spezzata in due, così, tac.

Un ammasso di corpi e di legni sballottati dalle onde contro la riva: è tutto quello che resta del barcone, delle vite, del desiderio di scappare da luoghi di guerra per cercare la fortuna.

Come se la fortuna fosse il cazzo di secchio pieno d’oro al fondo dell’arcobaleno.

Ed è così che ho deciso di parlare di questo libro potente e della sua voce, una delle poche che riesca a coniugare descrizioni storiche minuziose e specifiche a tratteggi umani pungenti e nudi.

La voce è quella di Rosella Postorino, che torna (per fortuna) da noi dopo Le assaggiatrici, già Premio Campiello.

La storia è quella una città e minacciata dai cecchini e dilaniata dai bombardamenti, spesso annunciati dal lugubre abbaiare dei cani.

Sarajevo: una città dove salta la luce, dove le scuole sono chiuse, dove si ruba ciò che si può dalle case distrutte. L’orfanatrofio non è solo ricovero per gli orfani veri e propri, ma anche per i bimbi che non possono essere accuditi dai genitori per cause di forza maggiore. In questa situazione straniante, incupiti dall’ombra oscura della morte, con i problemi di approvvigionamento, povertà, precarietà, minaccia dei cecchini e delle incognite che la guerra comporta. Si tratta di una delle guerre più tragiche della storia recente, una guerra che abbiamo avuto tanto vicina ma di cui, forse, non abbiamo mai percepito davvero la portata.

C’è Omar, così attaccato alla sua mamma che ha fatto dell’obbedienza la sua missione principale. E quando lei sparisce, resta spaesato e si aggrappa disperatamente all’idea di ritrovarla. C’è Nada, il cui nome significa “speranza”, non ha più l’anulare ed è convinta che quella sua mutilazione la rappresenti oltre la sua essenza. C’è Ivo, costretto ad arruolarsi, c’è Danilo e il suo mistero che Nada non riesce a decriptare. C’è Sen che deve sbattere in faccia al fratello Omar la sua verità: la madre li ha abbandonati, dice, altrimenti sarebbe rimasta con loro. Omar, Nada, Danilo e tutti gli orfani che, un giorno d’estate, vengono strappati via dalla loro terra salendo su un pullman che si dirige verso l’Italia.  Il famoso viaggio della fortuna che si ripete.

La famosa storia da cui non impariamo mai.

Ognuno è diverso, ognuno vive una tragedia tutta intima, ognuno cerca di ribellarsi, di adattarsi, di restare o di tornare a casa. Ognuno sembra sigillato in un dolore solitario e incomprensibile, eppure, ognuno sa che solo nell’altro c’è una possibilità di salvezza.

E i bambini, qui, sono adulti, salvatori di se stessi.
Bambini che si nascondono, che cercano, che risolvono, che scappano.

Bambini.

Fanno mondo tra sé, creano relazioni che sono capolavori istintivi di resistenza umana alle violenze, al capovolgimento delle loro vite determinato dai grandi. Lo hanno fatto nei campi di sterminio, lo fanno oggi nella guerra russo-ucraina, mostrando un innatismo del Bene che illumina i percorsi della storia con un bagliore di speranza.

Ci sarà la riviera adriatica, e le suore, e la storia d’amore.

E ancora questa atavica ricerca di madri, come noi che, anche dal lato facile della storia, annaspiamo per tutta la vita, cercando di distanziarci da coloro che ci hanno generato, ma che poi li ritratteggiamo negli sguardi, nei modi di dire e in quei baci della buona notte che non abbiamo più ma che riproponiamo a nostra volta ai nostri figli.

“Se il mondo non è fatto per noi, allora grazie, noi passiamo. Se tanto devo morire, allora scusa m preferisco stabilire io quando Ha fatto bene. Mica è una gara a chi dura di più. Non si vince niente”.

Vi lascio con questo libro ancora in mano, con la testa piena e il cuore pesante. E con una canzone che, se questo libro fosse film, ne sarebbe da colonna sonora perfetta.

‘Chè la prima vittima della guerra è l’infanzia.

Una bambina di undici,
ad una di quattro, come una mamma
portava per mano
ed un piccolo musico, col suo tamburo,
batteva sordo, al timore
di farsi trovare 
E poi c’era un cane, ma morto di fame
che per compassione nessuno ammazzò,
e si faceva scuola
tutti alla pari
sillabavan maestri e scolari
(Vinicio Capossela – La crociata dei bambini)

Natalia Ceravolo

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Enjoy Sarajevo