“Katherine won’t read it.”

V. Woolf

“Una macchia
sul muro, un pezzo di carta
caduto in terra, un bicchiere d’acqua,
un guardar dalla finestra,
ciao alla vicina,
una carezza alla gattina.”

P. Cavalli

Quando è stata nella campagna del Sassex, tra Charleston House, la casa di Vanessa Bell, la sorella pittrice di Virginia Woolf, e Monks House, la casa-museo non molto distante che era appartenuta invece ai coniugi Woolf, la scrittrice Sandra Petrignani ha intrecciato un racconto in cui Virginia Woolf affiora dall’aria ferma della stanza di Monks House dove il tempo e gli oggetti quotidiani si sono incagliati. La sagoma di Woolf, emerge qui e là, colta in un atteggiamento piuttosto che in un altro, gli amici del circolo, dentro, fuori, il matrimonio con Leonard Woolf che era stato piuttosto un tiepido sodalizio, la sorella Vanessa, l’amata Nessa che, dopo i lutti, aveva ripreso nelle mani il cerchio della vita e la proteggeva come una madre, la madre Julia, morta troppo presto, sopraffatta da una di quelle vite eroiche troppo piene di figli, doveri coniugali, sociali e tutto quel far finta di niente, il padre energico, monumentale, tempestoso con quel suo bisogno insaziabile di essere compreso e accolto, quel padre con cui Woolf si era identificata per combatterlo da dentro, con le sue stesse armi, l’intelletto.

Virginia Woolf emerge dai resti di una vita di cui quelle case bloccate nel tempo conservano come conchiglie il suono e il segno nei vecchi oggetti rimasti vuoti e sonori, ancora più sonori  perché vuoti. Gli oggetti continuano a fissarci, sono una bussola, l’impronta dove ci siamo accostati, il tessuto connettivo: una via verso le immagini che stanno sotto alle parole, quelle già scritte e quelle che si stanno scrivendo. Tra le pagine di La scrittrice abita qui (pubblicato per la prima volta nel 2002) cominciava in qualche modo anche la narrazione dell’amicizia tra Woolf e Katherine Mansfield, di cui sin da subito Petrignani non tace la rivalità ma ne inquadra l’affinità.

L’amicizia del resto è un sentimento complesso, sempre sbilanciato, ambivalente, perché ci sono proiezioni, ripicche, invidie, rivalità, che normalmente vengono taciute perché sono la parte sporca di un sentimento che si vuole puro e di una storia che deve essere per forza edificante. L’amicizia invece è meravigliosamente “cannibale”, si nutre di echi ma anche di mancanze, e come tutti i sentimenti umani, di desiderio: il desiderio di tutto ciò che cerchiamo nell’altro e che crediamo di non possedere. E poi un’amicizia femminile, è possibilmente una cosa diversa. Elena Ferrante (I margini e il dettato), riprendendo un testo fondamentale di Adriana Cavarero ci spiega il carattere “narrativo” delle amicizie femminili. E sicuramente la narrazione, nel senso della capacità originale di contaminarsi a vicenda è il punto di contatto più interessante del rapporto tra Virginia Woolf e Katherine Mansfield. Ed è qui che Sara De Simone autrice di Nessuna come lei si muove, tenendosi lontana da chi ha fatto dell’incontro tra le due scrittrici una specie di pettegolezzo letterario, l’ennesimo racconto di quel luogo comune che è la rivalità femminile o l’emblema di una sorellanza ad oltranza. Sara De Simone sceglie una prospettiva meravigliosamente e singolarmente letteraria: dall’interno delle opere, dalla musica che viene da lì, dalle lettere, dai diari, che prima o dopo essere serviti da documento e fonte sono suggestioni da cui partire per mettersi a inseguire “quella stessa cosa” che Woolf e Mansfield sentono di stare inseguendo; quella “stessa cosa che le accomuna” che a volte si palesa nella vita, altre nella scrittura.

Sara De Simone racconta questa amicizia anno dopo anno, pochi, incontro dopo incontro, nemmeno tanti, fino al momento in cui Woolf apprende da una domestica la morte di Mansfield: Mrs Murry’s dead! È il 16 gennaio del 1923, ultimo atto. A Parigi Mansfield si era sottoposta all’ennesimo disperato trattamento sperimentale per guarire dalla tubercolosi, quello del dottor Manoukhin che credeva di curare la malattia con cicli violenti di radioterapia. Sola, in un albergo nei pressi della Sorbona, esausta, cercando di trattenere tutto quello che comunque rimaneva. Qualsiasi speranza anche le briciole, anche quella di raggiungere la comunità di George Gurdjieff, il guru fondatore del centro per lo sviluppo armonico della persona. Qui, nella comunità di La Prieuré, nelle ultime settimane arriva una nuova consapevolezza, una specie di distacco: che lei è comunque capace di accogliere come l’inizio di una nuova vita.

L’amicizia tra Woolf e Mansfield passa anzitutto per un certo snobismo iniziale; quello proverbiale del circolo di Bloomsbury, gli intellettuali che ruotavano intorno alla mecenate Lady Ottoline Morell, ospiti indolenti della sua dimora a Garsinton, quel gruppo che era nato a Gordon Square, la casa in cui Virginia, Vanessa e i suoi fratelli, Adrian e Thoby, si erano trasferiti dopo la morte del padre, il grande umanista sir Leslie Stephen e dove le due sorelle avevano sperimentato una nuova libertà. Loro, tutti amici dei tempi di Cambridge, Lytton Strachey, l’aristocratico autore di Eminet Victorians, Clive Bell, marito di Vanessa, l’economista Maynard Keynes, Duncan Grant, il pittore omosessuale amante di Vanessa, Roger Fry, altro pittore, per citarne alcuni, non mancarono di fare le loro battute al vetriolo nei confronti della scrittrice neozelandese: “the little Colonial”, un po’ volgare, con un passato bohémien e rocambolesco, truccata pesantemente, “the female of the underworld” (Dora Carringhton) con quella sua scrittura troppo sentimentale, eppure capace di conquistare subito la scena come una calamita. Il volto incorniciato da una frangetta corta ed un taglio bob un po’ alzato, avvolta in tuniche, kimoni o scialli di seta, dall’aria un po’ bambola kokeshi un po’ russa, ma soprattutto con quegli occhi neri lucidi sempre vigilanti, pronti a liberare o contenere le emozioni.

Mansfield viene dalla colonia inglese, Wellington, Nuova Zelanda. Da un rassicurante cottege di legno bianco, fatto costruire da un banchiere, il padre, che non l’ha tenuta al riparo dagli incubi notturni. Poi era arrivata l’adolescenza, e gli incubi erano stati sostituiti dai tormenti, da Oscar Wilde, poeta eletto, dai propri desideri e la spregiudicatezza che lei aveva deciso di assumere fino in fondo. Ha abbandonato il nome Kathleen ed il cognome familiare Beauchamp, ha già giocato con la sensazione vertiginosa di possedere altri nomi ed altre identità, di lasciare piste, coprirne altre, di costruire un mistero: Kass, Kezia, Katerina, Kathe … nomi e pseudonimi, quelli sotto cui pubblica nelle riviste dell’avanguardia letteraria (The New Age, Rythm, poi Atheneum). Laggiù ha lasciato anche la principessa maori di cui era follemente innamorata. Invece porterà sempre con sé, LM, a cui ovviamente ha dato un altro nome, Ida Baker, anche lei proveniente dalla Nuova Zelanda, operaia a Londra. Ida starà sempre al suo fianco, sommessamente, servilmente, invadente e necessaria come una “Montagna”, amandola, curandola negli appartamenti umidi e malsani, governando Elephant House, la casa in cui Mansfield vivrà assieme al marito, la seguirà nei suoi viaggi improbabili nel sud della Francia e poi in Svizzera, in cerca di un clima migliore per curare la tubercolosi, fino alla fine accanto a Kathleen.

In realtà Mansfield ha già vissuto a Londra assieme alle sorelle per completare la sua educazione al Queen’s college, e da Londra non avrebbe mai voluto andarsene. Costretta a tornare a casa,  guarda la processione delle ore morte, e freme. Ha desiderato essere musicista, attrice ed ora vuole diventare a tutti i costi una scrittrice come quella sua parente, la baronessa Elisabeth von Armin. Ma è riuscita a convincere il padre, in questa storia in cui la madre, sembra disinteressarsi di questa terza figlia di cui non vorrà sapere più niente, estromettendola dal suo testamento. E nel tempo di un’estate è come se tutto si sia già compiuto. A Montevideo sul transatlantico che la sta portando in Europa, Mansfield viene violentata, di quella violenza porta in grembo una creatura che abortirà a Londra (All sorts of lives di Claire Harman). Ha perso il figlio illegittimo che aspettava dal musicista di cui era innamorata (Garnet), che non avrebbe potuto sposare perché la famiglia di lui si era opposta; ha sposato in tutta fretta un uomo che non amava, George Bowden, per dare un cognome a quel bambino. Per tenere segreta la gravidanza è stata accompagnata dalla madre, arrivata apposta dalla Nuova Zelanda, in Baviera, in una pensione di quelle allora in voga per “correggere” le devianze sessuali. Dalla relazione passeggera con un traduttore polacco, Florian Sobieniowski ha molto probabilmente contratto la gonorrea, quella per cui le viene asportata una tuba di Falloppio, e che le procurerà pleuriti ed una malattia reumatica abbastanza invalidante. In un dinner party ha conosciuto il critico John Middleton Murry. Gli ha lasciato un po’ di spazio nel suo appartamento, e l’ha scelto come compagno di vita, nonostante tutto quello che verrà, nonostante sia un uomo debole, un codardo, molto vanesio, nonostante i tradimenti che verranno, soprattutto il più imperdonabile: non esserle stato accanto nella malattia. Con lui e senza di lui ha vissuto a Parigi. Ha già smesso di credere nella vita ed è tornata di nuovo a sperare in essa. La sua vita è già una corsa, in cui meglio cogliere tutte le occasioni senza perdere tempo, trascinando dietro la voglia di cambiare il mondo e la donna che si è impegnata a diventare; la vita corre e anche la scrittura nei notebooks è un flusso senza punteggiatura, … esperienza, distruzione, spreco. Con sé porta un taccuino, scritto a diciannove anni in un viaggio ai confini del mondo dei Maori, nella regione Urewera (Viaggio in Urewera a cura di Nadia Fusini uscito con Adelphi) che ha deciso di visitare prima di partire per l’Europa, un taccuino da cui non si separerà mai, traccia necessaria di quella vita embrionale da cui proviene e che si porta addosso, come una specie di amuleto, una pietra di giada, una baia che contiene tutta la vita, di desiderio e malinconia.

Virginia Woolf ha appena pubblicato The Voyage out, è uscita da un lungo breakdown, è già sposata con Leonard Woolf e assieme a lui si è lanciata nell’avventura editoriale che sarà la Hogarth Press. Woolf, snob, geniale, sciatta nel vestire (almeno lei si sentiva così), vulnerabile è protetta al centro di questo gruppo di amici che fu l’avanguardia artistica dell’Inghilterra della prima metà del novecento, quella a cui toccò disfarsi dell’enorme affresco vittoriano in cui la famiglia era un maestoso albero genealogico, gli uomini andavano a caccia di volpi ed erano riveriti dalle mogli che riempivano la solitudine con i figli, la carità e la beneficenza.  Lei distrusse tutto questo come nessun altro.

I pettegolezzi su Mansfield arrivano alle sue orecchie, ma lei non se ne risente, detesta ogni forma di snobismo e convenzione, sicuramente proprio grazie a quel suo essere straniera: libera rispetto al pensiero colonizzatore maschile. Lei sa e (ne fa la satira in Bliss) che quell’élite culturale è solo un’altra élite, classista tanto quanto la precedente. E con la stessa acidità li chiama the “Blooms Berries”. Lytton Strachey, quel vecchio serpente, raffinato intellettuale di cui Virginia è stata molto innamorata, è il primo a parlarle di Mansfield, che ha incontrato in una riunione a Garsinton dove pure Mansfield dimorò. E così Virginia scriverà quelle famose linee divenute leggendarie: “One first impression … was not that she stinks like a – well civet cat that had taken to street walking. In truth, I’m a little shocked by her commonness at first sight: lines so hard & cheap”.

Ma questa è solo una riga, sotto c’è l’alimento della loro amicizia: una diffidenza sicuramente di entrambe, una specie di riservatezza quella di Woolf, e la segretezza di Mansfield, e, dall’altro lato, una forte attrazione intellettuale. Allerte entrambe ad ogni segnale e messaggio proveniente dall’altra, con una certa angoscia Woolf, con la solita imperscrutabilità Mansfield.

Scegliere di raccontare l’amicizia tra queste due grandi scrittrici significa scegliere di entrare nella loro vita intima, quella fatta di incontri privati, di lettere, bruciate quelle di Mansfield, perché lei aveva chiesto a Murray di farle scomparire tutte e di diari, quelli che Woolf tenne lungo tutta la sua vita e che conosciamo nella selezione che ne fece però Leonard Woolf, filtrati secondo il suo giudizio. Significa posizionarsi nella biografia ed intrattenere un certo rapporto con l’opera. In bilico tra saggio e romanzo. Significa tornare alla questione dell’intreccio tra vita e scrittura.

In Il canto del mondo reale, saggio che Liliana Rampello dedica a Virginia Woolf, l’autrice risolve la questione del binomio vita-opera, prediligendo l’opera, quasi come se la vita sia insufficiente, come se la vita, o una narrazione che riduca l’opera alla vita o peggio ancora all’invenzione di una vita sia una specie di tabù. Meglio dunque un ribaltamento di prospettiva: assecondando la vita nella scrittura, come se la vita possa essere raccontata solo a partire dalla scrittura, dal documento. Sottotitolo del saggio è infatti: Virginia Woolf. La vita nella scrittura

Come ricorda Rampello, vita e opera si legano e sovrappongono ma per vie indirette. Tanto subliminali che sarebbe riduttivo interpretare in chiave psicoanalitica l’opera e limitarsi a ritrovare in essa le tracce dei traumi vissuti da Woolf (dalla morte della madre, alle molestie subite nell’infanzia per mano dei fratellastri). L’opera non è solo una metafora della vita; o una continua ripetizione inconscia del trauma; né la vita e le sue scelte hanno una spiegazione solo freudiana o psicanalitica (per cui l’omosessualità, la frigidità, la malattia, il suicidio, sarebbero tutte esclusivamente legate ai traumi infantili). L’opera ha anche le sue ragioni interne, così come le scelte dell’età adulta hanno diversi moventi, ed alcuni sono piuttosto legati alla scrittura: la scrittura è essa stessa sottotraccia della vita.

Con Nessuna come lei, Sara De Simone ci restituisce il soffio della vita che è nelle lettere, nei diari, nei quaderni, nelle storie di queste scrittrici. L’atmosfera che animò quegli incontri a due di cui in realtà non ci sono testimonianze dirette e che per questo De Simone romanza perché ciò che fa da collante tra vita ed opera, tra finzione e saggio è la conoscenza profonda dell’opera, l’immersione nelle parole, e una specie di identificazione con le loro autrici.

Nell 1996, Nadia Fusini scrive Nomi un saggio in cui i nomi (delle scrittrici raccolte) sono quelle identità profonde che spezzano il silenzio e l’anonimità dei nomi di battesimo: sono il secondo nome e tutti gli altri che vengono dopo. “Which of many hundred of selves”, scriveva Mansfield. Ad ogni nome delle autrici raccontate Fusini associa una emozione. Virginia Woolf, è appunto il tremore. È un percorso critico per associazioni molto personale ed originale. L’emozione scelta di volta in volta è il segreto della scrittura, la sua anima, e la chiave per interpretarla. Il tremore con la sua gestualità instabile, è un’emozione complessa che come tutte le emozioni raccoglie entrambe le pulsioni di vita e di morte ma richiama soprattutto una lacerazione tra mondo interiore e la quotidianità che l’avvolge, tra significato e significante, tra cosa e parola che permette a Woolf di esprime quello che tutti in fondo cerchiamo: il senso ultimo. Se per Fusini l’origine dell’opera della scrittrice inglese è il tremore, per Rampello la radice dell’opera di Woolf invece è proprio il suo contrario: la vita. Tutto accade nel cerchio della vita, anche il suicidio. Quella che le viene incontro è una donna con un carattere complesso: insicura eppure desiderosa di piacere; curiosa di sapere tutto della vita degli altri con la necessaria dose di malevolenza e snobismo, mondana, una viaggiatrice, camminatrice, editrice.

In realtà le due letture sono complementari ed è forse proprio nelle crepe tra vita e malattia (quindi morte), tra volontà ed autodistruzione, tra letteratura e vita che si allungano le radici della relazione tra Woolf e Mansfield. Qui si costruisce il libro di Sara De Simone, che crea, ricrea e segue la corrente che passava in quegli incontri, un flusso di intimità, di parole che nessuno avrebbe dovuto ascoltare, di alcune confessioni, di battute di spirito, di riserve e affidamenti, di alleanza per cercare a tutti i costi di fare delle donne il soggetto piuttosto che l’oggetto dell’arte, di infelicità, di gioie segrete, di scrittura perché quelle gioie hanno a che vedere soprattutto con la scrittura.

Sara De Simone coglie e ricostruisce tutte le incrinature, i passaggi, anche i più lievi e trascurabili. Il passaggio da uno stato d’animo ad un altro, dal sollievo alla minaccia (che l’altra sia più brava), dall’invidia che decisamente è meglio confessare: accidenti Katherine perché non posso essere l’unica donna che sa scrivere, le scriverà Woolf. Dal desiderio di vedersi alla malattia che mangia ogni desiderio. Di incontri e lunghi periodi di silenzio. Di scene parallele e di punti di vista che si incrociano. Mentre Woolf è impegnata a preparare manualmente la stampa di Preludio, il racconto di Mansfield, Mansfield è nel suo appartamento di Chelsea, a letto, ammalata, il dottore neozelandese che la cura le ha appena scoperto la macchia della tubercolosi. Virginia Woolf è a letto, riposo assoluto, la cura di sempre per tenere a bada la sua malattia nervosa mentre Mansfield che è partita da sola, senza Murray, senza Ida per la Francia, nonostante la malattia, il dolore al polmone e la solitudine, lavora tutti i pomeriggi, in uno di quegli hotel, in cui si abituerà a vivere. Mentre Virginia arriva nell’amata casa di campagna di Asheham assieme a Leonard, Mansfield è colta in uno di quei momenti di paura che terrà tutti per sé, perché no, non può essere proprio la tubercolosi. Di incontri casuali che non avvengono perché entrambe escono di casa nelle stesse ore, percorrono le stesse strade di Londra ma per raggiungere due posti diversi. Di pacchetti che Virginia manda in Cornovaglia , dove Mansfield si è trasferita: è primavera, e vorrei che tu fossi qui.

De Simone le immagina all’unisono nell’atto di aprire la finestra, la guerra è appena finita, le urla di gioia entrano prepotenti, il rintocco della campana e poi quell’attimo di sospensione che le tocca entrambe. Virginia Woolf nell’estate del 1918, prende il treno da Richmond, per raggiungere Mansfield su ad Hampstead street, e quegli incontri, senza mariti che per ragioni diverse sono assolutamente deprimenti, sono preziosi. Della scoperta della vulnerabilità di Mansfield, che comunque in fondo soffre per un mancato invito ad una festa. Di critica letteraria, di autori che amano o che detestano. A Mansfield basta un’immagine per riassumere l’arte di Woolf: volare sulla scrittura e sull’immaginazione “ci si libra sopra, ci si tuffa, la sfiora, ci vola meravigliosamente intorno – nell’acqua vede i mirabili riflessi che vedrebbe un uccello. Ma non in una maniera umana”. Dal canto suo Virginia Woolf sa che Mansfield è l’unica interlocutrice, l’unica che potrebbe fare quello che sta facendo lei, “perché non posso essere l’unica donna che sa scrivere?”.

Su quell’ora religiosa che hanno passato assieme su all’Elefante. Su un addio che si porta via l’estate, via Mansfield che è costretta a partire di nuovo stavolta per Sanremo. Mentre Mansfield è di nuovo sola, con Ida, la cui presenza è necessaria ed intollerabile, in una casetta scomoda fuori Sanremo, truffata, malata, incapace di scrivere, Woolf pubblica Notte e giorno, ha una casa, la Hogarth Press, e un marito che le stava vicino. Sul giudizio senza sconti di Mansfield a proposito di Night and Day, perché da Woolf Mansfield si aspettava altro, perché il mondo era cambiato, accidenti, e niente poteva essere più come prima, neanche il romanzo, che doveva esistere in un modo nuovo. Mansfield che comincia a guardare la vita dall’altra parte, dalla morte, dal distacco,  perché la malattia avanza. Woolf che, dopo un periodo di astinenza dalla scrittura, quasi di nausea, come un animale che cambia pelle, intuisce una nuova forma, quella dei romanzi a venire. Sulle primavere che ritornano assieme a Mansfield. Sull’esitazione di Virginia, chi farà il primo passo, quando Mansfield torna finalmente all’Elefante; ma il bisogno di vedersi e sentirsi dire la verità vince ogni esitazione. Sul ritmo della conversazione di Mansfield. Sul senso di vuoto di Woolf sui binari defunti di Victoria Station per non poter più parlare con lei perché Mansfield è partita di nuovo per Mentone. Sulla scrittura che si arresta e riprende. Sulla distanza tra Mansfield che con l’aiuto di Ida, mentre Murry la tradisce con la principessa Bibesco, fugge la morte, parte alla volta della Svizzera dove stanno sperimentando un vaccino, mentre Woolf è radicata nella sua quotidianità, fatta anche di stupide gelosie.

Poi, dopo la morte di Mansfield, nei sogni e negli intervalli della vita di Woolf quando quell’amicizia assieme a tutto il resto si fa come un faro che si guarda dall’altra riva del tempo, come una stanza chiusa con le sue emozioni e i suoi volumi intatti che solo la scrittura con le sue pennellate è capace di dilatare.

Silvia Acierno